Friday, 16 December 2011

Sindrome da ventunesimo secolo

Cari lettori,
oggi vi propongo una canzone del cantautore francese Georges Brassens; trovo che le sue parole siano – ahimè – molto vere e molto attuali. Non sarà un caso che proprio in questi giorni mi ritorni in mente!
É del 1972 e fa parte dell'album Fernande. Segnalo, per chi volesse approfondire un po' il testo, il sito Analyse Brassens (purtroppo solo in francese).

Buona lettura, buona visione e buon fine settimana!

Sara

Georges Brassens
La Ballade des gens qui son nés quelque part (1972)


C'est vrai qu'ils sont plaisants tous ces petits villages
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part
Tous ces bourgs, ces hameaux, ces lieux-dits, ces cités
Avec leurs châteaux forts, leurs églises, leurs plages
Ils n'ont qu'un seul point faible et c'est être habités
Et c'est être habités par des gens qui regardent
Le reste avec mépris du haut de leurs remparts
La race des chauvins, des porteurs de cocardes
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part
Maudits soient ces enfants de leur mère patrie

Empalés une fois pour toutes sur leur clocher
Qui vous montrent leurs tours leurs musées leur mairie
Vous font voir du pays natal jusqu'à loucher
Qu'ils sortent de Paris ou de Rome ou de Sète
Ou du diable vauvert ou bien de Zanzibar
Ou même de Montcuq il s'en flattent mazette
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part

Le sable dans lequel douillettes leurs autruches
Enfouissent la tête on trouve pas plus fin
Quand à l'air qu'ils emploient pour gonfler leurs baudruches
Leurs bulles de savon c'est du souffle divin
Et petit à petit les voilà qui se montent
Le cou jusqu'à penser que le crottin fait par
Leurs chevaux même en bois rend jaloux tout le monde
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part

C'est pas un lieu commun celui de leur connaissance
Ils plaignent de tout cur les petits malchanceux
Les petits maladroits qui n'eurent pas la présence
La présence d'esprit de voir le jour chez eux
Quand sonne le tocsin sur leur bonheur précaire
Contre les étrangers tous plus ou moins barbares
Ils sortent de leur trou pour mourir à la guerre
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part

Mon dieu qu'il ferait bon sur la terre des hommes
Si on y rencontrait cette race incongrue
Cette race importune et qui partout foisonne
La race des gens du terroir des gens du cru
Que la vie serait belle en toutes circonstances
Si vous n'aviez tiré du néant tous ces jobards
Preuve peut-être bien de votre inexistence
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part



La ballata di quelli nati in qualche posto
(traduzione di Mario Mascioli e Nanni Svampa)

Sono davvero ameni tutti questi piccoli paesi,
tutti questi borghi, queste frazioni, queste località, queste città vecchie
con le loro roccaforti, le loro chiese, le loro spiagge;
hanno un solo punto debole, e cioè quello di essere abitati
e cioè di essere abitati da gente che guarda
tutto il resto con disprezzo dall'alto dei loro bastioni:
la razza degli sciovinisti, dei portatori di coccarde,
i beati imbecilli che son nati in qualche posto.

Siano maledetti questi figli della loro madrepatria,
impalati una volta per sempre sul loro campanile,
quelli che vi mostrano le loro torri, i loro musei, il loro municipio
vi fanno vedere il paese natio fino a farvi divenire strabici.
Che vengano da Parigi, da Roma o da Sète,
o da casa del diavolo oppure da Zanzibar,
o anche da Montcuq, se ne vantano, caspita,
i beati imbecilli che son nati in qualche posto.

Non c'è niente di più fine della sabbia
sotto la quale delicatamente i loro struzzi nascondono la testa.
Quanto all'aria che usano per gonfiare i loro palloni,
le loro bolle di sapone, è afflato divino.
E, piano piano, ecco che si montano
la testa fino a pensare che lo sterco fatto
dai loro cavalli, anche quelli di legno, susciti l'invidia di tutti,
i beati imbecilli che son nati in qualche posto.

Non è un luogo comune quello della loro nascita,
compatiscono con tutto il cuore i poveri disgraziati
i piccoli fessacchiotti che non ebbero la presenza,
la presenza di spirito di venire alla luce nel loro paese.
Quando suonano le campane a martello sulla loro precaria felicità,
per combattere gli stranieri, tutti più o meno barbari,
escono dal loro buco e vanno a morire in guerra,
i beati imbecilli che son nati in qualche posto.

Mio Dio, come si starebbe bene sulla terra degli uomini
se non vi si incontrasse questa razza di scorretti,
questa razza molesta e che abbonda dappertutto:
la razza della gente del suo paese d'origine, della gente del posto.
Come sarebbe bella la vita in ogni momento
se tu non avessi tratto dal nulla questi balordi,
che sono la prova, forse, della tua inesistenza:
i beati imbecilli che son nati in qualche posto.


Sunday, 11 December 2011

Quando il cinema non aveva bisogno di parole: Asta Nielsen



Il film sonoro è kitsch!

Il film sonoro è unilateralità!

Il film sonoro è un assassinio economico e spirituale!

Perciò: esigete il film muto e rifiutate il film sonoro!


É questo il messaggio del volantino indirizzato "Al pubblico", che risale con tutta probabilità all'inizio degli anni '30, quando i primi film sonori entrarono nelle sale cinematografiche europee, prendendo lentamente il posto del film muto. Come è noto, i primi film che venivano proiettati nelle sale erano accompagnati da musica, spesso suonata dal vivo da un'orchestra, ma erano assolutamente privi di “parlato”.

Ebbene, la rivoluzione del film sonoro da molti non venne accolta con favore: le potenzialità espressive delle immagini venivano penalizzate con l'introduzione dei dialoghi, la fantasia dello spettatore limitata. Il film diventava uno spettacolo unilaterale.
I talkies, così erano chiamati i nuovi film in America, persero un volto straordinario, quello dell'attrice danese Asta Nielsen. Un volto che, d'altro canto, poteva appartenere solamente al mondo del cinema muto. “Nemmeno il più grande scrittore, il più consumato artista della penna, sarebbe in grado di esprimere a parole ciò che Asta Nielsen trasmette coi primi piani del suo volto”*, commenta il critico cinematografico ungherese Béla Balázs nel suo saggio Theory of the Film (1949).



Asta nacque nel 1881 a Copenhagen e cominciò la sua carriera come attrice di teatro. Il debutto nel mondo del cinema risale al 1910 con il film Afgrunden (“L'abisso”) diretto da suo marito, il regista Peter Urban Gad. La loro unione artistica ed affettiva diede vita ad una trentina di film, nei quali Asta impersona i più diversi personaggi, femminili e maschili; è celebre, ad esempio, il rifacimento dell'Amleto (1921), in cui l'attrice veste i panni del principe danese.

Sarà in Germania, tuttavia, che la coppia troverà fortuna. Conosciuta qui semplicemente come “Die Asta”, l'attrice vide la sua fama crescere velocemente, sull'onda del successo di Afgrunden. Successo, ma anche scandalo; la scena della “gaucho-dance”, nella quale la protagonista intrappola al lazo il suo fidanzato ballando in modo sensuale e provocante attorno a lui, lasciò il pubblico dell'epoca a bocca aperta.



(Non stupitevi della parola “Slut” alla fine: quello che in inglese significa “sgualdrina”, significa in danese “fine”)

Successi e scandali andranno delineando la figura di Asta come seduttrice, come donna dal forte individualismo a dalla marcata personalità, come artista capace comunicare quasi esclusivamente attraverso la forte carica espressiva del suo volto. Un volto che compare in più di settanta film, girati tra il 1910 e il 1932, la maggior parte dei quali prodotti in Germania, e che fa di Asta una delle prime grandi stelle del cinema internazionale.

Nel 1925, in Die freudlose Gasse (“La via senza gioia”), al fianco di Asta Nielsen ci sarà anche Greta Garbo, altra grande attrice scandinava. Se però per quest'ultima l'avvento del film sonoro segnò un passo avanti nella sua carriera, per Asta esso significò la fine della sua esperienza cinematografica. La “diva silenziosa”, così era anche chiamata, si accorse subito che il linguaggio del suo volto non poteva essere adatto al nuovo medium e, dopo aver girato un unico talkie, abbandonò gli schermi per tornare a recitare nei teatri, dove aveva iniziato il suo percorso, nei primi anni del secolo. Pochi anni dopo la comparsa del film sonoro, nel 1936, Asta lasciò anche la Germania, dopo che Goebbels le offrì la possibilità di avere uno studio cinematografico personale, volendo evidentemente sfruttare in questo modo la grande fama dell'attrice per fini propagandistici.

Proprio in questi giorni, mentre stavo preparando questo post (che già da tempo intendevo pubblicare), esce nelle sale italiane The Artist, quest'anno presentato al Festival di Cannes; un film muto ed in bianco e nero in cui il regista, il francese Michel Hazanavicius, racconta proprio del passaggio al film sonoro. É la storia dell'incontro tra un divo del muto, che vede il suo successo tramontare con l'avvento del nuovo film, e un'attrice che invece comincia la sua ascesa proprio nel mondo del sonoro.



Sara


* “Not even the greatest writer, the most consummate artist of the pen, could tell in words what Asta Nielsen tells with her face in close-up” (traduzione mia, e un po' libera...)

Wednesday, 7 December 2011

tangram uno

E con un bianchetto ho iniziato a sbianchettare la riga, al di sopra dell'asta di metallo della macchina da scrivere. L'ho fatto come una modella che maneggia lo smalto, o una cinquantenne curata, perché il boccettino era proprio simile. Col pennello, voglio dire, e la cannuccia di plastica che sempre s'incrosta, e ricorda imbianchini e muri fatti di fresco- con il conseguente abbondare sparso di secchi di plastica incrostati e di odore misto sigaretta-gomma-acrilico. È un odore fresco, da autunno o da marzo, come una piscina all'ombra di mattina, ancora deserta. Pulito e freddo insieme,.
La riga era sbagliata, avevo sbagliato tutte le parole, e dire che saranno state cinque o sei in tutto: ma oggi mi sembrano sbagliate anche le virgole. Sulla destra c'è una scatoletta di mentine, un cilindro basso bianco e nero che ruota su se stesso per sputar fuori il pezzo di liquirizia glassata. Da piccolo li smontavo sempre, questi cosi.
Oh, e c'è anche un pupazzetto rosso, credo che fosse qualcosa da un film anni '80, ma davvero ora..
E un trattopen, nero. Tempo fa ne ho visto uno con i cerchietti disegnati sopra. Compratelo per i vostri bambini, gli servirà nell'ora di religione. Religione trattopen rosa. Disegnate maiali e colorate le fotocopie.
La luce è elettrica e gialla, e così bassa da creare una linea d'ombra decisamente curva e decisamente vicina. Ma non è fastidiosa, guardo il passaggio non graduale luce-ombra, le sfumature calde che si impossessano dell'interregno. Sedie di metallo nere.
E invece no, non c'è nessuna macchina da scrivere e non sto scrivendo, sono sul pavimento in una stanza bianca dai soffitti alti. Il cielo oggi è azzurrissimo ma fa freddo, e il sole corre veloce sul pavimento. Sei, otto rettangoli- i vetri con il legno. La luce è molto bella, si riflette e da' vita a strane rifrazioni che sanno di già visto. Io sto qui, la stanza è vuota, non ho fame e non ho sonno, solo un po' di freddo, guardo l'azzurro fuori.
E invece no, è notte fuori ed è notte dentro, la stanza è un miscuglio di luci rosse e verdi e solo il freddo rimane. Fa freddo, si, e io tremo in una maglia non abbastanza spessa. In questo momento nelle case gli alieni fanno ginnastica, fanno flessioni, le donne si danno lo smalto, qualcuno scriverà a macchina. Esistono ancora le macchine da scrivere? Certo. Con i loro nastri neri e rossi, per scrivere in nero e in rosso, nastri che però sono strani: ruvidi e lassi, sembrano fettucce da merceria.
Guardo la luce rossa cercando calore, e invece tremo ancora. I muscoli fanno dei balletti strani, si contraggono a regioni preordinate; ma se davanti il risultato è un pareggio stentato, la schiena pizzica per il freddo anche se continua a guizzare.
Là fuori gli imbianchini staranno lavorando alle loro pareti, e le donne avranno finito con lo smalto. Lasceranno i loro specchi bordati di bulbi accesi e con noncuranza passeranno tra paralumi rossi e cavi stesi sul pavimento.
Vorrei i rettangoli per terra, ma non ci sono.

UM
(originariamente comparso qui)

Saturday, 3 December 2011

Un oggetto minaccioso


In questa foto si notano le caratteristiche che lo avvicinano alla Mantide Religiosa.

È qualche giorno che siedo davanti al computer per lavoro e non sono tranquillo. C'è qualcosa vicino a me che diffonde inquietudine. Mi sento osservato e hai voglia a far finta di niente e continuare a battere alla tastiera! Non si può restargli indifferenti.

 

Nel suo habitat naturale, vicino ai consueti compagni:
dei fogli di carta e una penna a sfera.
Allora rallento, il digitare si fa più pacato e distratto. Con la coda dell'occhio provo a scorgere cosa si trovi vicino a me.
D'un tratto mi rendo conto! Sebbene, a dir la verità, non so che nome abbia.





Libero di scorrazzare sul banco bianco.

Qualcuno ha lasciato sulla scrivania posta di lato, tra una risma e una penna a sfera, un “vanifica-spillatrice”, ovvero una di quelle piccole pinze con quattro denti a mo' di zanna o artiglio che servono per allentare la presa delle graffette sui fogli di carta.

In seguito ho scoperto che questo strumento si chiama “levapunti”, ma a dispetto del suo nome dal bel solfeggio resta un oggetto proprio sgraziato, poveretto. Anche se a me non ha mai fatto niente.


                                                                                                               N.D.

Tuesday, 29 November 2011

I Blocchi Viola

Seconda parte del post “Soltanto un porto, in Israele”.

Il porto di Ashdod è uno scalo importante che si stende lungo il litorale come una costola di cemento attaccata dal mare alla Terra Santa e, per arrivare al varco d'uscita che avevo in mente, impiegai almeno mezz'ora.
Il cielo era nuvoloso, ma stava lentamente aprendosi e la giornata era mite. Dopo dieci minuti di marcia passai accanto a due pullman parcheggiati che avrebbero potuto essere i famosi Shuttle Bus per i passeggeri della nave, obbligatori per uscire dal porto, ma tutti i cartelli e le scritte erano solo in caratteri ebraici. Eppoi non c'era nessuno, nemmeno l'autista - pur essendo la portiera spalancata- a cui chiedere informazioni. Stando così le cose mi sentii autorizzato a non capire e a proseguire per la mia strada tenendo sott'occhio i movimenti di uno di quei giganteschi montacarichi a quattro zampe che servono per spostare i blocchi colorati, ma dalle tonalità slavate, dei container.

Quando arrivo al Gate il primo con cui incrocio lo sguardo è un ragazzo biondo leggermente in disparte rispetto al passaggio a livello che lascia passare le auto con brevi interruzioni. Sembrerebbe di origini slave e mi guarda con diffidenza, ma non dice niente. Ci sono però altri due, un ragazzo dalla carnagione olivastra e i capelli scuri, e una ragazza dai lineamenti tipicamente indiani. Sono loro che fermano le macchine e chiedono i documenti. Vestono la stessa uniforme grigia che da ora in poi indosseranno tutti quelli che mi fermano per i controlli.

Sventolo il mio pass e faccio per andare, dando per scontato che mi prendessero per un turista, ma il ragazzo dai capelli neri mi richiama indietro, quasi sorpreso. Gli mostro il documento e prima di visionarlo chiama a sé il suo collega biondo, come per mostrargli e insegnargli una cosa nuova. Ha l'atteggiamento di chi conosce il proprio mestiere, mentre il secondo ha un'espressione dura e si limita ad ascoltare. Non posso fare a meno di notare che entrambi sono molto giovani e probabilmente hanno meno dei miei venticinque anni.

Dopo aver letto le mie generalità mi dice “I love Italy, but you can not go this way. This is only for cars and I can not chek you properly.* Devi andare al Gate numero 3 che è laggiù in fondo.
Rispondo sullo stesso tono, esprimendo la mia delusione per quella precauzione a mio avviso eccessiva, ma non faccio cenno all'equazione “mi piace il paese da cui provieni perciò mi piaci anche tu”, perché so bene che può essere una cosa ben più profonda della boutade da poliziotto che potrebbe sembrare e sinceramente non ho voglia di impelagarmi. Trascurando di prendere in considerazione che i tratti somatici di loro tre soli coprono buona parte dell'Eurasia. Laggiù in fondo? Ma dove esattamente?
Vai dritto sino alla rotonda, poi chiedi.

Vado allora verso il Gate numero tre ora che il sole si è levato e sull'asfalto strisciano nugoli di sabbia fine. Alla sinistra, sulle pareti di una di quelle lunghe costruzioni che fanno da magazzino e allo stesso tempo servono a caricare i camion, sono dipinti dei murales, ma i loro colori hanno poche sfumature e il gioco di prospettive ne risulta schiacciato. Anche i loro motivi non sono originali: una grande cerniera che si apre su uno sfondo di un'altra tonalità; il volto dell'uomo gigante che cerca di farsi breccia attraverso una specie di velo per irrompere in questa dimensione; un ragazzino vestito da corridore che, tra grossi cubi viola, sostiene a sua volta sulla schiena un grosso cubo viola nella stessa posizione in cui Atlante mantiene sollevata la volta celeste.

La sostituzione del Titano barbuto con la figura di un fanciullo, dalle evidenti aspirazioni atletiche, non mi convince affatto. Anzi, la sensazione di pesantezza che ne deriva sembra essere insuperabile, mentre ho sempre pensato che sotto lo sforzo del Titano, impegnato per punizione a tenere separati la terra dal cielo, fosse possibile una realtà di cose minute, generatrici di un certo grado di serenità.

Le immagini di questi graffiti invece, mentre mi dirigo allo spartitraffico per poi svoltare e avviarmi al Gate numero 3, danno luogo a un non precisato affanno senza punte di originalità. E la figura del ragazzino corridore, più di tutte, potrebbe fare da illustrazione a uno di quei racconti sulle adolescenze difficili che si leggono sulle antologie di terza media.


Fine della seconda parte.


Niccolò D.

*Mi piace l'Italia, ma non puoi passare di qui. Questo passaggio è solo per le auto e non ti posso controllare come si deve.

Thursday, 24 November 2011

La realtà entro quattro mura

Dallo scenario presentato nel post "Cose dell'altro mondo" vorrei fare un passo avanti nel tempo e risalire alle origini del teatro moderno.

Per ripercorrere le tracce del teatro medievale si era dapprima entrati nelle chiese, quindi usciti sulle strade, ed infine nelle piazze di tutta Italia.

Ora, se per il teatro medievale esistono poche e non sempre certe testimonianze, le origini della messa in scena moderna si possono invece collocare precisamente nel tempo e nello spazio. Tra il 1580 e il 1585 a Vicenza Andrea Palladio progettò ed iniziò a lavorare al celebre Teatro Olimpico, il primo teatro stabile a livello europeo. Il teatro moderno, come lo concepiamo ancora oggi, è quindi frutto di un Rinascimento ormai maturo.

Quella rinascimentale è una nuova concezione del mondo basata sull’importanza della dimensione terrena, focalizzata sull’ordine razionale che determina tutte le cose in natura e sul rapporto dell’uomo con essa. Mi piace considerare, come esempio di tale nuovo approccio alla realtà, l’affresco di Raffaello raffigurante La scuola di Atene (1510) nel quale i più grandi pensatori dell’antichità sono rappresentati all’interno di uno spazio architettonico di gusto classico, dominato da pilastri ed archi a tutto sesto e l’uso della prospettiva dona un senso di armonia e perfezione.

Per quanto riguarda il teatro, gli sviluppi più significativi di questo periodo sono determinati principalmente dal ritrovamento di alcuni testi antichi (la Poetica di Aristotele, ma anche il trattato De Architectura di Vitruvio, risalente al 25 a.C.) e, appunto, dalla scoperta della prospettiva, una delle maggiori conquiste rinascimentali.

Dalle piazze, i teatri si erano pian piano spostati nelle corti dei grandi signori, divenendo così molto più esclusivi. Il Teatro Olimpico rappresenta una svolta. Costruito su modello degli antichi teatri romani, esso può ospitare quasi 400 spettatori e, ai gradoni posti a semicerchio attorno al palco, offre altrettanti punti di vista: non si tratta infatti di un teatro di corte in cui l’unica prospettiva che conta è quella del re che siede di fronte alla scena, ma bensì di un teatro pubblico. La costruzione venne commissionata al Palladio dall'Accademia Olimpica di Vicenza, una compagnia (un club, se si vuole) di letterati, i cui membri si trovano tutti allo stesso livello sociale.

Come nei teatri antichi romani, dunque, il proscenio è suddiviso in tre parti, un’ampia apertura centrale e due minori laterali: questi passaggi si aprono sui fondali ed accompagnano l’occhio dello spettatore per le “sette vie di Tebe”, grazie ad uno straordinario effetto prospettico. In occasione della rappresentazione inaugurale, l’Edipo Re di Sofocle, venne rappresentata sullo sfondo la città di Tebe, ma di fatto ciò che si vede è una sorta di città ideale.
Negli anni successivi vennero costruiti altri teatri stabili e vennero introdotte numerose innovazioni di carattere tecnico ed architettonico che contribuirono a rendere la messa in scena sempre più spettacolare e verosimile, andando a definire sempre più la tipologia di teatro come lo si conosce oggi. Quinte rotanti e quinte scorrevoli, macchine e macchinari per far scendere gli attori dall'alto e creare nuovi effetti di movimento, innovative tecniche d'illuminazione per il palco e per la sala. Successivamente venne introdotto l'arco scenico, che ancora oggi costituisce un elemento necessario in ogni teatro stabile, e che rappresenta una vera e propria cornice che delimita la scena, dando una maggiore illusione teatrale. Tutti questi elementi dovevano contribuire alla creazione di uno spettacolo verosimile, una imitazione della realtà.

Una delle grandi novità di questa nuova concezione del teatro è che esso viene concepito come un luogo non più esclusivo. In questo modo sostituisce in un certo senso la funzione che svolgeva la piazza nel teatro medievale; inoltre, la costruzione di teatri chiusi rappresenta anche una misura di controllo delle manifestazioni pubbliche, molto frequenti nelle epoche precedenti.

Il genio rinascimentale ha quindi dato vita ad un nuovo teatro, capace di riprodurre la realtà in maniera sempre più fedele e, quasi in tutto, uguale a quello contemporaneo. Tuttavia, in questo processo di rinnovamento, si è andata sempre più perdendo la dimensione di un teatro spontaneo ed immediato, del quale anche il pubblico può diventare parte attiva; non è un caso infatti che il concetto di “quarta parete” risalga proprio alla concezione contemporanea del teatro.

Nonostante ciò, c'è qualcosa che la rappresentazione teatrale in sé non perderà mai, ovvero il suo carattere di unicità.

A Niccolò e a me è capitato, qualche mese fa, di trascorrere qualche ora di un viaggio da Göttingen a Udine con un attore tedesco, Dieter Rupp. “Il monologo dell'Amleto” - sosteneva - “è sempre lo stesso, non c'è dubbio, ma ogni volta che viene recitato lo spettatore assiste ad una reinterpretazione di Shakespeare irripetibile, che è allo stesso modo, un'esperienza unica per l'attore.”



Sara

Saturday, 19 November 2011

Soltanto un porto, in Israele.

Prima Parte.

In Israele non mi è riuscito di allontanarmi dal porto. O meglio, ce l'ho fatta solo per qualche minuto, ma in un punto in cui davanti a me vedevo ancora container e l'unica terra che ho potuto calpestare, a parte l'asfalto, è stata quella di alcune aiuole sporche di cartacce, lattine e brandelli di copertone.
Non so spiegare perché sia andata così, forse perché quando eravamo ancora sul ponte della nave, prima di arrivare, si era sparsa la notizia che era vietato aggirarsi a piedi per i dock ed era obbligatorio prendere lo Shuttle Bus o il taxi per andare almeno sino al vicino centro di Ashdod. Credo sia stato in questo modo che la mia curiosità, in maniera inconscia, si è ripiegata sulla circostante area demaniale, nell'arco della manciata di ore a disposizione.

I controlli però, erano iniziati sin dal giorno prima. A Cipro una delegazione israeliana, composta da quattro ragazze in abiti civili e un solo uomo oltre i cinquanta in tuta bianca e celeste, avevano controllato i passaporti e le facce di ogni membro dell'equipaggio intenzionato ad uscire. Qualche secondo occhi negli occhi e, se non vi fosse stato scorto il Maligno, veniva rilasciato un foglietto di carta con la foto e i dati personali, valido solo per la sosta della nave nello stato ebraico.

Tuttavia, oltre a questa ispezione evidente a tutti, per entrare in Israele sono stati necessari prima e durante l'approccio l'invio di una documentazione minuziosa con i dati di tutte le persone a bordo e l'acquisizione di un contatto costante via radio VHF direttamente con la Marina Militare Israeliana. Anche in questa occasione, le onde del canale 67 trasmettevano una voce di donna che una dopo l'altra dirigeva le navi alla rada, evitando di farle passare per una “no-go area”, non segnalata sulla carta.

A poche miglia dalla costa, sono frequenti gli avvicinamenti di navi da guerra e in cielo il volo di aerei militari. Nel nostro caso, quando si poteva già scorgere in lontananza l'entrata del porto, un'imbarcazione di pattuglia carica di soldati dalle facce grevi e i fucili spianati, ha percorso un giro in senso orario attorno alla nave. Saranno stati più di una ventina, uomini e donne, tutti in piedi e disposti prevalentemente in due cerchi serrati, uno a prua e l'altro a mezzo, dandosi le spalle tra loro in modo da essere rivolti tutti verso l'esterno. Si è trattato quasi di un'apparizione perché la loro lancia agile e svelta, pur non tralasciando di posare uno sguardo oltremodo attento, sparisce velocemente tra noi, nave passeggeri, e altre due mercantili che aspettavano l'arrivo del Pilota per essere condotte all'ormeggio.

Era mattino presto e l'unica luce era una striscia gialla dietro ai palazzi in lontananza, per il resto era tutto metallico, il cielo coperto e il mare mosso. Ashdod non doveva essere una bella città, a vedere il suo profilo da lontano sembrava un po' squallida, ma non m'importava. Succede molte volte di non trovarsi in città eccezionali, ma non per questo la voglia di vedere coi propri occhi come la gente ci vive svanisce. L'avrei visitata volentieri, desideroso di conoscere la sua quotidianità durante una mezza giornata di novembre.

Sbarcai finalmente dalla nave e sulla banchina un ragazzo e una ragazza vestiti di jeans stretti e felpa neri aspettavano i passeggeri discendere la scaletta seduti vicino a un metal detector, che così collocato sul molo, con le grandi distanze che si potevano vedere attraverso, sembrava strano come una porta collocata in uno spazio aperto. Lei doveva essere l'incaricata principale di quell'ispezione e spegnendo una sigaretta per accendersene immediatamente un'altra, con un'espressione dura mi chiese di posare tutto quello che avevo con me su un tavolino e di rigirare le tasche dei pantaloni. Chiavi, macchina fotografica, cintura: nessun problema.

Varcato questo primo controllo, non vedo attorno a me nessuno Shuttle bus o altra indicazione che ne faccia cenno, solo due taxi con un prezzario che non riesco a decifrare perché non mi sono chiesto sino ad ora quanto valga uno Shekel. Sulla sinistra però ci sono dei grossi hangar e un cartellone con su scritto Duty Free. Dentro vi si trovano una serie negozi scintillanti che attraverso interessandomi distrattamente a un Hard Disk portatile, per poi arrivare presso una porta di vetro che spingendo, senza nessuno sforzo si apre.

Eccomi libero di vagare per il porto senza che nessuno faccia caso alla mia presenza domandandomi perché mai potesse essere proibito e tra gru, lamiere e bomboloni di gas su carrelli a rotaia, dirigermi istintivamente verso l'uscita più vicina alla città.



Fine della prima parte.

                                                      Niccolò D.

Saturday, 12 November 2011

Ritorno alla giungla e riti d'iniziazione

La lettera di Bebette


Questa è la lettera di cui vi parlavo in Colline tonde e colline coniche, un breve scritto che delinea la storia di René Jean-Jérôme, la cui curiosità verso l' altrove lo portò ad esplorare in lungo e in largo il Vecchio Continente. Bernadette ebbe modo di conoscerlo durante una vacanza in Sud America.

Paul Klee. Paesaggio con uccelli gialli, 1923.
‹‹ È proprio una storia autentica quella di René Jean-Jérôme. Come vedi m'è tornato alla mente il suo nome. Nello specifico René è il nome e Jean-Jérôme il cognome. Che strana idea imporre nomi e cognomi d'esportazione ai colonizzati! Sono sicura che i loro nomi originari dovevano essere migliori, più vicini al loro contesto.

René era curiosissimo di tutto ciò che riguardava la natura, ci aveva detto di possedere molti Cd su ogni sorta di soggetto in merito e per approfittarne aspettava solo che installassero l'elettricità al suo villaggio. Così, quando tu mi hai ricordato la sua esistenza, mi sono immaginata che doveva per forza essere da qualche parte su internet dopo tutti questi anni. E l'ho trovato! È la sola guida nativa tra quelle impiegate alla GGC, la compagnia delle guide turistiche della Guiana.

Ed ebbi molta fortuna a incontrarlo perché all'inizio del soggiorno, il gruppo si divise in due. Una parte venne presa da un francese.. mentre io, ho avuto René.

René ha vissuto praticamente nudo nella giungla sino ai dodici anni. Un giorno però gli fu detto : “Tu sei francese e i francesi devono andare a scuola, che cosa vuoi imparare?”. Scelse allora di apprendere i mestieri del legno: falegname o mobiliere, non so più, sta di fatto che questo l'ha allontanato dal suo villaggio. Ma siccome era un ragazzino molto sveglio e curioso, fece in fretta ad imparare, oltre a comprendere che vivere nella giungla era come vivere ripiegati su se stessi. Il mondo era grande, vi erano molte cose interessanti e invenzioni incredibili da scoprire! Così quando un giorno gli venne nuovamente detto: “Tu sei francese e i francesi fanno il servizio militare. Tu dove lo vuoi fare, in Guiana o in Francia?”, non esitò un momento a partire per la Francia che, ad ogni congedo, visitò in lungo e in largo a piedi nudi (dato che non sopporta le scarpe, indossate allora solo per fare piacere ai militari....).

Ritornato in Guiana trovò lavoro al cantiere “Ariane” dove guidava delle macchine enormi che schiacciavano la giungla per impiantarvi del cemento!!! Ma ancora una volta gli venne fatta una proposta irresistibile: “Se vuoi , puoi farti una formazione per guidare delle macchine ancora più grosse, ma bisogna andare in Europa” .... .....Rieccolo quindi percorrere l'Europa a piedi nudi e in seguito, forte della formazione acquisita, rimettersi a guidare le grandi macchine che permettono ai grandi razzi di spiccare il volo (i razzi che vanno nello spazio, ndt).

Un altro giorno ancora, fu il suo capo ad interpellarlo personalmente “Dì, ho degli europei che vorrebbero vedere la giungla, tu la conosci, no? Li potresti portare?”... . Beh, certo che la conosceva! E sicuro che ce li poteva portare! E nella giungla lui li conduce ancora adesso... ed è stato in questo modo che anche lui ci ha fatto ritorno.

Ma il capitolo che ti interessa forse di più è quello che riguarda i riti d'iniziazione.

Si tratta di far smarrire i partecipanti nella giungla dopo avergli fatto prendere una droga affinché non sappiano più dove li si sta portando, dovendo poi essi ritrovare la via del villaggio solo dopo aver catturato una preda da condividere con il resto della tribù. René l'ha fatto all'età di dieci anni, se ricordo bene, ed era riuscito a cacciare un pecari, una specie di maiale selvatico. Gli servirono tre giorni per ritrovare il villaggio e altri due per cacciare. Yes! Ma t'immagini quel che succederebbe se lo si facesse da noi.. già quando il ragazzino ritorna un po' più tardi da scuola si scatena il panico!!! E lui 5 giorni!.. .. .... Anche se è vero che detta così fa un po' paura.

Nella loro cultura ogni bambino è tutelato da un adulto che gli insegna tutto ciò di cui ha bisogno per vivere nella giungla... come nutrirsi, cacciare, pescare, ripararsi, curarsi, fabbricare degli utensili... ... ... ciascuno con il suo professore esclusivo. Ed è questo suo tutore che decide quando il bambino dovrà affrontare l'iniziazione, se lo reputa maturo abbastanza per l'esperienza. Non è dunque una questione d'età, ma di maturità.

Fu per questa ragione che il suo fratellino affrontò il rito a soli a otto anni! E non è certo una cosa da tutti! Dopo più di due settimane d'assenza, non vedendolo tornare, la tribù decise di iniziare le ricerche l'indomani al levar del sole, proprio nel momento in cui il piccolo ricomparve.

Aveva con sé una preda piccina piccina da spartire e, anche se alla fine ce l'aveva fatta a ritrovare il villaggio, era in un brutto stato, fisico e psichico. Ma essendoci riuscito, ebbe diritto, come tutti coloro che portano a successo tale prova, ad avere un'abitazione tutta per sé.

Ed io che sono andata sino là per scoprire come e perché la gente vive nella giungla, con René sono stata proprio ben servita! ››

                                                                                                          Bernadette


Giunti alla fine della lettera, devo confessarvi che René Jean-Jérôme, non è il vero nome di René, ma solo uno di mia invenzione che lo potrebbe ricordare. Questo perché non vorrei urtare la sua sensibilità nel caso si scoprisse citato più volte in un articolo che tratta la sua vita in un'altra lingua, pubblicato da qualcuno che non l'ha mai incontrato di persona. Sapete, capita a tutti ogni tanto di cercare il proprio nome su Google.. Visto però che su internet René lo si trova già, cercherò di contattarlo, se non altro perché mi piacerebbe conoscerlo.

Inoltre, nella mia traduzione, ammetto di aver modificato leggermente il ritmo di certi passaggi, pur cercando di mantenere l'immediatezza propria dell'intero racconto. Questione di gusto personale, per una sua resa più efficiente nella nostra lingua.

Ad ogni modo di seguito trovate l'originale della lettera, in francese.


                                                                                                         Niccolò Doberdob

La lettre de Bebette.


C’est une bonne histoire vraie celle de René Jean-Jérôme. Comme tu vois, j’ai même retrouvé son nom. René est le prénom et Jean-Jérôme le nom. Quelle drôle d’idée d’imposer des noms et des prénoms d’exportation aux colonisés ! , je suis sûre que leurs vrais noms devaient être mieux, plus proches de leur milieu.

Tuesday, 8 November 2011

Non solo voce: Bobby McFerrin

Bobby McFerrin è un cantante jazz molto conosciuto ed apprezzato, diventato famoso anche per gli amanti di altri generi musicali nel 1988 con la celeberrima Don't Worry, Be Happy. Come succede spesso per innumerevoli canzoni altrettanto famose, di solito si ignora chi sia l'autore di testo e musica. Io, ad esempio, non lo sapevo fino a qualche giorno fa...

Definirlo semplicemente un cantante è però tremendamente riduttivo, come lo è la sola associazione con la famosa hit degli anni ottanta. Bobby fa della sua voce l'unico strumento di gran parte delle sue esibizioni; essa è quindi indispensabile, necessaria e allo stesso tempo sufficiente a tener accesa l'attenzione del pubblico durante un intero spettacolo.

Da poco ho appurato chi si celasse dietro a Don't Worry, Be Happy, e purtroppo non ho avuto ancora il tempo per scoprire un po' della sua musica. Anzi, da quando qualche sera fa ho sentito per caso un suo concerto alla radio, non ho quasi più riascoltato niente di suo.

Tuttavia... le vie della rete sono infinite e, come si può ben immaginare, su youtube si trovano moltissimi video di McFerrin (ed altri sono disponibili sul suo sito ufficiale). Oggi voglio proporvene uno che mi piace particolarmente; si tratta di un duetto improvvisato con la cantante portoghese Maria João. Anche in questo caso, definirla solamente “ jazz vocalist” è troppo poco, ma questo vi sarà chiaro guardando l'esibizione.

Quello che trovo straordinario di questo duetto è il modo in cui i due artisti sembrano capirsi alla perfezione, come, nel gioco dell'improvvisazione, ognuno dei due riesce ad intuire le mosse dell'altro e ad accompagnarle, per così dire. Certo, - come obbietteranno i lettori più esperti di musica – ma l'improvvisazione si basa su delle regole, sebbene agli orecchi meno attenti possa non sembrare; non è mica solo intuito!

Resta il fatto che, per una poco esperta come me, questo è un dialogo che sembra nasca esclusivamente dalla spontaneità dei due artisti. Il pubblico diventa spettatore di un botta e risposta in una lingua nuova, ma che riesce a comprendere senza fatica.


Buona visione!

Sara

Thursday, 3 November 2011

Colline tonde e colline coniche

Quattro passi sul “ terril ”


Per una ragione o per l'altra, mi trovavo in Belgio a raccogliere informazioni sui paesi tropicali. Volevo fare una tesi sulla giungla e già questo poteva sembrar strano, dato che si trattava del lavoro conclusivo per un corso di studi in letteratura francese. Quando poi feci sapere in giro che a scriverla sarei andato in Vallonia, in molti fecero fatica a trovarci un nesso, ma titubanti o divertiti, mi lasciarono andare senza troppe domande.

Scelsi di andare a Liegi, quattro giorni prima della partenza stabilita da tempo per il 16 giugno e, grazie anche al temperamento della città, là trovai tutto quello che mi serviva. Spensieratezza, una biblioteca universitaria, una libreria alle pendici del quartiere Pierreuse e una cantina piena di scatoloni di cartone, stracolmi di libri. Ma a stimolare la mia ispirazione furono anche le lunghe conversazioni con Bernadette, la signora che mi affittava una stanza, la cui passione per la natura ha qualcosa di formidabile. Per dare un'idea, lei è in grado di stare una settimana da sola in montagna tra i boschi, cibandosi delle piante e delle radici commestibili trovate cammin facendo. Certo, si tratta di un tipo di gita un po' estremo e se ne rende conto anche lei, sebbene una volta, sottovalutando forse la resistenza necessaria, decise di portarsi dietro una tra le sue sei-sette sorelle -non ricordo più bene il numero- a cui ben presto mancarono le forze. La lasciò allora presso un rifugio alpino a rifocillarsi, mentre lei continuò la sua marcia ancora per qualche giorno.

Una sera, dopo cena, grazie alle lunghe giornate di fine giugno- in Belgio d'estate resta chiaro sino alle undici- andammo a fare una passeggiata seguendo un sentiero che tra i boschi portava sino al “terril”. Non conoscevo ancora questa parola, ma immaginandomi un grande ammasso di terra compresi presto di averci indovinato. I terrils sono le montagnole, a volte vere e proprie colline alte più d'un centinaio di metri, formate dai vecchi detriti delle miniere di carbone che con i decenni sono ritornate a essere terra fertile per radici e prati incolti, su cui alberelli ancora esili crescono caoticamente. Ogni tanto il passo vi sprofonda ed è questa la ragione per cui su ampi tratti sarebbe impedito l'accesso, ma con una certa accortezza seguendo il volo di un calabrone e il profumo di una flora diversa da quella dei boschi intorno, nessuno sarebbe venuto a dirci di tornare indietro.

Molti fiori dal lungo stelo attiravano infatti insetti in cerca di nettare e il loro brusio aumentava la percezione del tepore estivo. Sarà stata solo una sensazione, ma Bernadette mi spiegò che il suolo nero del terril assorbe più calore delle zone circostanti e ciò dà luogo a microclimi che possono variare da un versante all'altro della collina, spesso adatti a specie di piante e animali non tipici dell'area. Sono inoltre frequenti fenomeni di combustione interna, dovuti alla presenza di materiale ancora combustibile e a una grande quantità di ossigeno in profondità, che possono trasformare il terril in un forno capace di raggiungere i 1300 gradi al suo interno e tra i 25 e i 60 gradi a pochi centimetri dalla superficie. In queste condizioni un clima caldo e umido viene garantito anche nei gelidi mesi invernali assieme ad una diversità ecologica non indifferente. É per per questo che a inoltrarsi su un terril si possono incontrare, tra papaveri gialli e digitali, vari tipi di rospi e lucertole, annusare piantine di finocchio, fermarsi ad ascoltare il lavorio dei picchi o ritrovarsi davanti ad alberi da frutto come meli e peri, di cui si dice siano cresciuti dai torsoli che i minatori gettavano nei cunicoli.

E tra tutti questi esserini che ci spiavano, ronzavano o fotosintetizzavano attorno a noi, procedeva la nostra scalata a questa grande sorta di soffice panettone erbaceo, dalla forma artificialmente tondeggiante -ma ce ne sono anche a punta e alcuni decisamente troppo, troppo, conici- che insieme a tanti altri attorno alla città di Liegi, testimonia l'impatto, volumi e volumi di roccia dissepolta, del suo “glorioso” passato di industria pesante.

Con questo non voglio dire che l'estrazione mineraria e la metallurgia siano ormai un capitolo chiuso nel bacino Haine-Sambre-Mosa, solo che da tempo queste attività non sono più in grado di trapiantare interi paesi di minatori da tutte le Zolfatare d'Europa alla periferia di centri come Liegi o Charleroi: ogni notte la lingua di fuoco costante della “belle flamme” emana un'aureola arancione dal lungo tubo dell'acciaieria di Ougrée dove segna il vento e il suo alone si propaga sino alle acque navigabili della Mosa che portano in centro.

Ma sul nostro terril era ancora chiaro e come al solito Bernadette era piena di storie e aneddoti incredibili. In particolare quella sera mi raccontò la vita di René Jean-Jérôme, una guida turistica nativa della Guyana Francese che lei aveva conosciuto durante un viaggio in Sud America, sul ciglio ombroso della giungla.

Si trattava della storia di un ragazzino che dopo aver superato un difficile rito d'iniziazione, lascia il villaggio della sua tribù per andare a esplorare il mondo. Una storia che io vorrei raccontare a voi da molto tempo, ma siccome mi dispiacerebbe tralasciare qualche particolare importante, ho chiesto a Bernadette di scrivermi una lettera per rinfrescarmi la memoria. Una lettera che ho già ricevuto e che mi sto limitando a tradurre cercando di non appesantire troppo la sua immediatezza.

La troverete su circoloMarlow tra qualche giorno.



Niccolò


1.  Foto di terrils.

2.  Approfondimento sui terrils presenti nella regione di Liegi, in lingua francese.

Thursday, 27 October 2011

À propos: Amelia Rosselli

In risposta alle parole apolidi, le parole di un'apolide.


La lingua è viva e le parole sono capaci di attraversare latitudini, tempo e culture con gran facilità e versatilità. Le riflessioni del post "Le parole apolidi " di Niccolò, mi hanno fatto pensare subito alla poesia di Amelia Rosselli, cui già da tempo volevo dedicare uno spazio sul blog.

Sebbene non sia strettamente necessario ai fini di questo post, spenderò un paio righe per presentare brevemente alcuni dati biografici. Nata nel 1930 a Parigi dove il padre, l'antifascista Carlo Rosselli, risiedeva come rifugiato politico; dopo l'assassinio del padre (ucciso assieme al fratello Nello nel 1937) comincia per Amelia una vita fatta di costanti spostamenti, una vita da apolide, appunto. Vive in Svizzera, negli Stati Uniti, in Inghilterra, compiendo studi di filosofia, letteratura e musica. Gli anni '50 e '60 sono anni italiani, durante i quali si consolida la sua fama di poetessa.

Sarà Pier Paolo Pasolini a scoprire – come si dice in questi casi – l'unicità della sua poesia e a permettere che ventiquattro dei suoi primi componimenti vengano pubblicati sulla rivista di letteratura Il Menabò, nel 1963. Parlo di unicità perché la poesia di Amelia è davvero impossibile da inquadrare all'interno dei movimenti poetici e letterari dell'epoca: anzi, personalmente trovo che classificazioni di questo tipo siano sempre difficili da fare. In questo caso è chiaro che non vale nemmeno la pena di fare un tentativo.

“La lingua in cui scrivo volta a volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica associativa è certamente quella di tutti i popoli, e riflettibile in tutte le lingue”, dichiara la stessa autrice.



La sua poesia è prima di tutto una ricerca di affinità sonore, più che di significati, e spesso trascura sintassi ed altre regole della lingua italiana. Di fatto, la lingua in sé diventa un'entità non più limitata, ma aperta. I confini tra idiomi svaniscono, le parole vengono smontate fino ad ottenerne solamente le componenti principali, vengono accostate per dar vita a singole immagini che si susseguono tra verso e verso, ed in certi casi vengono rimontate per ottenere un' armonia, un accordo. Lo scopo è quello di creare un linguaggio universale.

Così come vengono a mancare i confini tra lingue, cadono anche le divisioni tra pubblico e privato: dai suoi versi sprigionano riflessioni tanto intime quanto comuni, riguardanti la situazione storica contemporanea all'autrice. Una dimensione presentata per mezzo di versi che “sanno trasmetterci in modo lancinante la percezione della normalità dell'orrore, della quotidianità come dominio privilegiato del terribile”, come commenta Pier Vincenzo Mengaldo.

Pasolini definisce quella di Amelia una scrittura basata sul lapsus “inserito nella serie di borchie, di cui questa lingua – nata come fuori dal cervello, quasi proiezione fisica di un involucro spirituale razionalmente inesprimibile – ha bisogno di costellarsi, per presentarsi come prodotto culturale riconoscibile, leggibile. (…) certamente la Rosselli sa di fare esperimenti linguistici scoperti, in un laboratorio pubblico”.

Mi rendo conto di dilungarmi forse un po' troppo in citazioni altrui, che alle volte possono apparire noiose o di troppo, però confesso che al momento non saprei definire meglio l'unicità di Amelia Rosselli.

Sebbene apparentemente possa sembrare casuale, quindi, la scelta delle sue parole è in realtà calcolata fin nei minimi dettagli, in quanto esse formano parte di un più ampio sistema – il verso, la strofa, la lingua stessa – basato su esatte corrispondenze musicali, determinate quasi in maniera matematica. Questo lo si può evincere soprattutto con la lettura ad alta voce delle sue poesie, senza però dovere o volere a tutti i costi trovarci senso, significato, autenticità. “Cercatemi e fuoriuscite” esorta la Rosselli, che ancora afferma:


Io non sono quello che apparo – e nel bestiame

d'una bestiale giornata a

freddo chiamo

voi a recitare.



Attraverso una scrittura visionaria, frammentaria, ma per certi versi anche molto razionale la poetessa esprime una personalità complicata da uno stato psichico costantemente turbato, fragile e soggetto a depressioni, che la porterà infine al suicidio, nel 1996, nel suo appartamento romano.

Il video che vi propongo rappresenta a mio avviso una buona introduzione ad Amelia Rosselli, vale la pena di dedicarci 5 minuti di tempo.

Sara

Tuesday, 25 October 2011

Le parole "apolidi"




Ci sono molte parole che non esistono che mi piacciono tantissimo. Tibresco, malacché, bagiordo, non vogliono dire nulla, eppure fanno da paravento ad associazioni non prive di logica, sebbene l'inizio di questo percorso sia inspiegabile. Eppoi ci sono un monte di parole insospettabili, piccole, senza apparenti peculiarità che con il loro modesto bagaglio di fonemi nascondono la capacità di attraversare idiomi diversissimi, indifferenti alle distanze. Qualche mese fa per esempio, benché sul ponte della nave si parli in inglese, ho sussurrato tra me e me, ma neanche troppo sussurrato a dire il vero: Cosa? Detto tipo: Koosa? Ebbene, il marinaio filippino al mio fianco ha capito esattamente “compagno di cella”, mentre Sladjiana, ufficiale serbo, pensava volessi dire “capra”. Al ché, mi son dovuto spiegare: no ragazzi, né capra né galeotto, volevo soltanto dire: Whaat? E loro, per risposta: Aaah.

Un'altra volta, parlando con degli indiani di Mumbai, è saltato fuori che il nostro “mangia” di io mangio tu mangi egli... a loro suona esattamente come “il tratto di corda che lega l'aquilone al bandolo con cui lo si porta in giro”.

In questo genere di parole “itineranti” si potrebbero forse inserire i cognomi, che nascondono al viaggiatore insidie fino al giorno prima insospettabili e da cui non potrà più liberarsi completamente nemmeno fuggendo lontano. Anche al Polo Sud infatti, in un angolino della sua mente gli resterà per sempre il pensiero: Oh mio Dio! Io.. quella cosa là?! E sicuramente i toponimi: al largo della Scozia siamo passati accanto a due isolette che si chiamano Luce e Barra. Oltre ad altre due che di nome fanno Canna e Rhum.
Infine, un occhio di riguardo merita il ramo delle parole “apolidi”, quelle che non appartengono a nessuna lingua in particolare, ma che vengono comprese dappertutto. Ancora un esempio? Ciop-ciop.



                                                                                                                          NiccoloD.

Tuesday, 18 October 2011

Quartiere Karaköy, Istanbul.

È una gelida mattina d’autunno su tutto il Mar Nero e il vento sempre più forte comincia a montare le onde proprio mentre la nave discende verso il Bosforo, anche se una volta giunti nello stretto il mare si placa nuovamente e la costa ci accoglie con un abbraccio notturno dai mille occhi di lampade accese.

Alle sei è ancora scuro e lungo le sponde si leva il canto salmodiante della preghiera del mattino accompagnato dai suoni metallici dell'altoparlante e da uno strumento che non conosco. Se si esce sull’aletta non è raro accorgersi dell'arrivo in un nuovo porto dal cambiamento degli odori, ma la bassa temperatura oggi ostacola questo primo presentarsi della città, soffocando l'odore che la terra suda ed emana a miglia di distanza, pur potendo ancora riconoscervi una nota di amaro che ricorda l’ultimo sorso di una tazza di tè.

Si fa giorno e la nave è ormai all’ormeggio davanti alla cittadella di Galata, una collinetta affollata di gente e di palazzi, sormontata da una torre cilindrica col tetto a punta che costruirono i Genovesi secoli fa.

Dall’altra parte del canale, oltre due grandi moschee, si alza in volo un immenso stormo di anatre selvatiche che a strisce nere coprono il cielo di Istanbul per qualche minuto. Non avevo mai visto uno stormo così grande, centinaia e centinaia di anatre disposte in fila lunghissime e ordinate, separate dallo stesso settore di cielo. Ogni striscia è tracciata da tanti puntini concentrati verso la stessa direzione che scemano velocemente all'orizzonte tra i sottili minareti.

Queste anatre improvvise m'hanno messo allegria e forse ispirazione, così chiedo il permesso di uscire per andare a scattare qualche foto. In strada, dopo un attimo di agitazione dovuto al comportamento anomalo della mia macchina fotografica, comincio a fare fotografie a casaccio. Il piccolo schermo a cristalli liquidi non mostra alcuna differenza di luce cambiando l’ampiezza del diaframma, una cosa che mi turba, ben sapendo che qualche decennio fa era a questo modo -senza essere certi della luminosità sino all'ultima fase di sviluppo- che si facevano le fotografie. Dopo un'oretta, tra le calli e i mattoni di Karaköy, un tempo Galata, tutto ritorna come prima senza aver toccato alcun tasto in particolare. Misteri della tecnologia.


                                                                                                                  Niccolò Doberdob

Wednesday, 12 October 2011

Uno studio sul disegno

Leonardo da Vinci, progetto di una macchina volante, c.1488
Certe mattine ci si alza con una sensibilità amplificata. Questo penso che accada soprattutto dopo certe sere, quelle che si prolungano per sfumare in argento con la luce del mattino presto e il sonno che le segue non supera le tre ore. Sono momenti in cui si ritrova il mezzo giorno alle dieci e ci sente partecipi con tutto il corpo e tutta l’intelligenza - un fremito che si crede costante, impulso vegetale, da fotosintesi- di tutto ciò a cui assistiamo, di quello che diciamo e ascoltiamo.
Un simile stato dell’anima, permettetemi di usare questo termine, accordato sulla nota di fondo che suona il mondo in una sintonia cosmica che ci fa sentire di grandezza costante sia in rapporto ai sistemi solari e alle galassie, sia alle cellule e ai protoni, devono averlo saputo sostenere con perpetuità alcune persone. Tra queste un ragazzino di qualche secolo fa che non capendo l’algebra per astratto si mise a disegnarla al lume del moccolo e del sole, intestardendosi nella comprensione delle forme della natura che lo circondava e puntando sulla vista gli altri quattro sensi più la fibra stessa: le proporzioni cominciarono a sciogliere i loro numeri in linee ogni giorno più precise.
Gli andò bene, prese la strada giusta e non poteva essere altrimenti, ma andò oltre. Comprese che laddove, attorno a lui, la sostanza per distinguersi dall’aria si raggrumava in diverse densità -ed ecco gli alberi, il tavolo e le persone- sul suo foglio accadeva il contrario. Comprese che la sua penna non aggiungeva inchiostro su un supporto bianco, ma sul bianco agiva togliendogli dominio, scavando spazio.
I suoi disegni erano sculture al contrario, il foglio una finestra su una dimensione perfettamente simmetrica, speculare alla realtà tangibile in cui per contrasto egli si muoveva, svolgendo la sua vita.
La sua creatività da intuito si trasformò in leone, una fiera luminosa impegnata in una lotta esaltante, solitaria, contro l’aria che i suoi artigli fendevano senza provocare ferite e guadagnando una sempre maggiore leggerezza che, sulla carta, per esattezza, lo portò a volare.


                                                                                                                        ND.

Thursday, 6 October 2011

Parli come badi!

Riflessione sull'attuale questione della lingua.


Ricordo che qualche mese fa, era un giovedì sera, s'era riusciti come sempre a fatica a vedere 'Annozero' in streaming, cosa che all'estero appunto è possibile solo per vie non propriamente autorizzate. E come spesso accadeva il giovedì sera, dalle casse del computer uscivano le urla gracchianti del sottosegretario Daniela Santanchè, provocandoci tra l'altro un certo disagio (sia per la cattiva qualità del suono, sia un po' anche per la Santanchè in se stessa). La mia coinquilina tedesca che, grazie alle reminiscenze del latino studiato anni fa al Gymnasium, riesce ogni tanto ad individuare qualche parola di casuali conversazioni in italiano, quella sera si trovava con noi e assisteva apparentemente senza interesse alla trasmissione: mi colpì quindi quando ad un tratto mi chiese “Ma perché continua a ripetere la parola verità?” Lì per lì, devo essere sincera, non seppi cosa rispondere; mi resi conto che effettivamente la parola era già stata ripetuta più volte ed io non ne avevo quasi fatto caso. Perché, quindi?

Capita, a volte, di ripetere una parola talmente tanto che ad un certo punto essa si riduce solamente ad una sequenza di suoni e perde via via il suo significato. A me succedeva quando dovevo imparare le coniugazioni dei verbi (e studiando lingue, per questa fase ci sono già passata varie volte...): io bevevo, tu bevevi, egli beveva, noi bevevamo, voi beveva -va -va -ve -...eh?

Il trucco quindi stava funzionando anche quel giovedì sera, a forza di ripeterla la verità era diventata qualcosa di scontato, cui non ci si faceva più caso ma, soprattutto, non era più verità!

Qui si rischia addirittura di cadere nel filosofico, eppure c'è chi si riempie la bocca di queste parole e ce le fa sentire e risentire. Vorrei considerarne un'altra, cui forse qualcuno a questo punto avrà già inevitabilmente pensato: ebbene sì, libertà. In molti hanno provato a spiegare cosa sia, molti hanno lottato e lottano per ottenerla, molti sanno che non ce l'avranno mai, eppure rimane sempre un concetto difficile da definire in maniera univoca. E quindi quando sentiamo parlare di libertà, la domanda dovrebbe sorgere spontanea: ma quale libertà? La libertà del popolo? La libertà che avremo nel futuro? La libertà che sta a sinistra e che sostiene la causa dell'ecologia? Insomma, c'è libertà dappertutto, e abbiamo ancora il coraggio di lamentarci!

E ce ne sono molte altre di queste parole: amore, per esempio, e ovviamente il suo contrario, valori, emergenza, merito, e la lista potrebbe continuare ancora a lungo.

Ci sono poi parole più volgari che entrano a far parte dell'uso comune, proprio perché anche queste vengono riproposte con una tale frequenza che ci si dimentica del loro essere volgari e non ci si preoccupa nemmeno più di tappare le orecchie ai bambini quando queste vengono pronunciate. Di questi tempi poi tali parole escono allo scoperto con molta più assiduità, sarà la crisi che ci rende tutti più nervosi...

Buttandola sul ridere Niccolò proponeva, qualche post fa, il nome per il nuovo partito, facendo riferimento alle intercettazioni del mese scorso in cui il nostro Paese veniva definito di merda, e proprio da chi del Paese dovrebbe prendersi più cura e dare “il buon esempio”. Ebbene, oggi sempre lo stesso soggetto ha proposto un nome migliore.

Se quindi continuiamo a non badare, come invece suggeriva Totò, andrà a finire che questo trucchetto ci lascerà senza parole!

(Per concludere, vi rimando ad un post di qualche tempo fa, dal blog di Maurizio Viroli sul sito del Fatto Quotidiano: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/25/chi-parla-male-pensa-male/153335/)


Sara


(Nota: non me ne voglia la Santanchè, il post ha chiaramente un tono ironico! In ogni caso di fronte ad un'accusa posso sempre difendermi dicendo che “sono stata fraintesa”, pare che la scusa funzioni...)


Tuesday, 4 October 2011

Ernst L. Kirchner: correndo sul ponte

Ernst Ludwig Kirchner e die Brücke

Czardastaenzerinnen, 1908/1920
Il Ponte, ovvero die Brücke, fu il nome del gruppo di studenti di architettura che nel 1905 scelsero di percorrere assieme un tragitto ambizioso, benché la loro irrequietezza non glielo facesse apparire tale. Si trattava di rendersi media lungo le coordinate spazio-tempo della storia dell'arte unendo con pennellate dai colori sfrontati i maestri medievali della pittura germanica quali Dürer e Grünewald a ciò che essi ritenevano essere lo spirito del proprio tempo e, con grandi campate che sorvolassero la tradizione accademica, trovare una congiunzione tra l'espressione artistica europea e quella tribale dell'Africa e dell'Oceania.


Le stanze-studio di Fritz Bleyl, Karl Schmidt-Rottluff, Erich Heckel, e in particolare quella di Ernst Ludwig Kirchner -già una vecchia macelleria di Dresda- aprirono così le porte ad anni di frenetica ricerca sull'impatto emotivo delle forme che rappresentano la realtà materiale che ci circonda, attraverso accostamenti di colore in grado di catturare istanti particolari della loro percezione, tagliando l'elaborazione sensoriale in infiniti strati particolari.


In qualche anno, il crescente apprezzamento del pubblico e della critica portò il gruppo a trasferirsi nella capitale Berlino dove Kirchner poté approfondire la sua analisi della dimensione urbana, investigando sulle atmosfere di luci al neon cariche di movimento la cui elettricità non sembra mai essere in grado di lasciarsi alle spalle le solitudini, dai toni ben più sordi, della massa metropolitana. Volti di passanti che appaiono e si illuminano tra la folla come pesci in acque scure intercettati da un filo di luce, assieme a tram sferraglianti e bivi desolati, si accosteranno allo studio costante sulla figura umana ritratta prevalentemente in ambienti chiusi. Soffitte, locali notturni o tendoni da circo, sono infatti i luoghi dove i soggetti di Kirchner sembrano cadere, alternamente, in apparente stato di quiete -dato che non si ha mai la sensazione che tale calma sia della stessa natura di una contemplazione riappacificante nemmeno quando riprende motivi orientali - o in balia delle giravolte di un ballo sfrenato.


Potsdamer Platz, 1914
Nel 1913 il Ponte si scioglie, probabilmente Kirchner aveva peccato di egocentrismo nello scrivere Chronik der Brücke, la storia del gruppo, mandando su tutte le furie i suoi compagni che non si videro degnamente rappresentati. Ognuno di loro, e Kirchner più degli altri, tenterà in seguito di sminuirne l'esperienza con dichiarazioni irriverenti su quel che effettivamente doveva essere stato per la maturazione artistica dei suoi componenti. Personalmente però, non sono incline a dare troppo peso a tali postume dichiarazioni di disistima e d'altronde nemmeno volendo si potrebbe veramente cancellare il segno lasciato dal Brücke, la cui energia creativa contribuì parallelamente ai Fauves francesi alla nascita dell'Espressionismo.


Con lo scoppio della prima guerra mondiale, Kirchner si arruola come volontario, ma è un soldato emotivo che soffre la disciplina e in breve tempo sarà vittima di un pesante crollo nervoso che lo farà riformare dall'esercito. Esplicito a questo riguardo, il suo “Autoritratto come Soldato”, dove si rappresenta in uniforme e con una mano mutilata, senza in realtà aver mai subito tale incidente fisico.


Self-portrait as a Soldier, 1915
Per guarire si rifugerà in Svizzera, presso un sanatorio della località alpina di Davos, dove migliorerà le sue condizioni e lenirà la dipendenza da alcol e morfina sotto la supervisione dei dottori. Sarà questa l'occasione per entrare in contatto ravvicinato con l'ambiente naturale, probabilmente la tematica risolutiva dell'esperienza artistica di Kirchner, considerando l'arco della sua breve vita.


In una lettera da Davos del 1913 scrive: “ Il caro Van de Velde oggi mi scrive che dovrei fare ritorno alla vita moderna. Per me è fuori discussione. E neppure lo rimpiango... Le delizie che il mondo provvede sono le stesse dappertutto, differendo solo nella loro forma esteriore. Qui si impara come vedere oltre e ad andare più in profondità rispetto alla vita “moderna”, la quale generalmente è molto, molto più superficiale, malgrado la sua ricchezza di forme esteriori”.

Durante la convalescenza, il suo successo crebbe ulteriormente e nel 1921, cinquanta sue opere furono in mostra al Kronprinzenpalais di Berlino. Le esposizioni che avevano luogo in tutta la Germania lo costrinsero a riconsiderare la possibilità di un ritorno in patria, dove riprese a lavorare a ritmo incessante. All'inizio degli anni trenta la sua grande versatilità di pittore, incisore ligneo e scultore, gli apriva continuamente nuove frontiere e presto gli fu assegnato il prestigioso allestimento della hall del Folkwang Museum di Essen. Un lavoro che purtroppo non riuscì mai a completare a causa dell'avvento al potere del regime nazista che s'impadronì della struttura ed inserì Kirchner nella lista degli “artisti degenerati”.

Woman in a Green Blouse, 1913
Dal 1933 Kirchner fu continuamente osteggiato dalle contromisure culturali di Goebbels e presto gli fu interdetto di esporre in territorio tedesco. Oltre seicento fra le sue opere vennero confiscate ai musei per venire distrutte o vendute all'estero.


Reso ancora più fragile dalle circostanze politiche e dal bando totalitario sull'arte moderna, Kirchner si tolse la vita presso la sua abitazione di Davos, un anno prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.




Per un'introduzione all'opera di Ernst Ludwig Kirchner, in lingua inglese, consiglio di seguire i link a questi due tesi in formato pdf e di fare riferimento alle pagine omonime di Wikipedia, ancora una volta in inglese e in tedesco.


1. http://static.royalacademy.org.uk/files/kirchner-student-guide-13.pdf


2. http://www.newyorkartworld.com/reviews/kirchner.html


N. Doberdob