Tuesday 18 October 2011

Quartiere Karaköy, Istanbul.

È una gelida mattina d’autunno su tutto il Mar Nero e il vento sempre più forte comincia a montare le onde proprio mentre la nave discende verso il Bosforo, anche se una volta giunti nello stretto il mare si placa nuovamente e la costa ci accoglie con un abbraccio notturno dai mille occhi di lampade accese.

Alle sei è ancora scuro e lungo le sponde si leva il canto salmodiante della preghiera del mattino accompagnato dai suoni metallici dell'altoparlante e da uno strumento che non conosco. Se si esce sull’aletta non è raro accorgersi dell'arrivo in un nuovo porto dal cambiamento degli odori, ma la bassa temperatura oggi ostacola questo primo presentarsi della città, soffocando l'odore che la terra suda ed emana a miglia di distanza, pur potendo ancora riconoscervi una nota di amaro che ricorda l’ultimo sorso di una tazza di tè.

Si fa giorno e la nave è ormai all’ormeggio davanti alla cittadella di Galata, una collinetta affollata di gente e di palazzi, sormontata da una torre cilindrica col tetto a punta che costruirono i Genovesi secoli fa.

Dall’altra parte del canale, oltre due grandi moschee, si alza in volo un immenso stormo di anatre selvatiche che a strisce nere coprono il cielo di Istanbul per qualche minuto. Non avevo mai visto uno stormo così grande, centinaia e centinaia di anatre disposte in fila lunghissime e ordinate, separate dallo stesso settore di cielo. Ogni striscia è tracciata da tanti puntini concentrati verso la stessa direzione che scemano velocemente all'orizzonte tra i sottili minareti.

Queste anatre improvvise m'hanno messo allegria e forse ispirazione, così chiedo il permesso di uscire per andare a scattare qualche foto. In strada, dopo un attimo di agitazione dovuto al comportamento anomalo della mia macchina fotografica, comincio a fare fotografie a casaccio. Il piccolo schermo a cristalli liquidi non mostra alcuna differenza di luce cambiando l’ampiezza del diaframma, una cosa che mi turba, ben sapendo che qualche decennio fa era a questo modo -senza essere certi della luminosità sino all'ultima fase di sviluppo- che si facevano le fotografie. Dopo un'oretta, tra le calli e i mattoni di Karaköy, un tempo Galata, tutto ritorna come prima senza aver toccato alcun tasto in particolare. Misteri della tecnologia.


                                                                                                                  Niccolò Doberdob

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