Thursday, 27 October 2011

À propos: Amelia Rosselli

In risposta alle parole apolidi, le parole di un'apolide.


La lingua è viva e le parole sono capaci di attraversare latitudini, tempo e culture con gran facilità e versatilità. Le riflessioni del post "Le parole apolidi " di Niccolò, mi hanno fatto pensare subito alla poesia di Amelia Rosselli, cui già da tempo volevo dedicare uno spazio sul blog.

Sebbene non sia strettamente necessario ai fini di questo post, spenderò un paio righe per presentare brevemente alcuni dati biografici. Nata nel 1930 a Parigi dove il padre, l'antifascista Carlo Rosselli, risiedeva come rifugiato politico; dopo l'assassinio del padre (ucciso assieme al fratello Nello nel 1937) comincia per Amelia una vita fatta di costanti spostamenti, una vita da apolide, appunto. Vive in Svizzera, negli Stati Uniti, in Inghilterra, compiendo studi di filosofia, letteratura e musica. Gli anni '50 e '60 sono anni italiani, durante i quali si consolida la sua fama di poetessa.

Sarà Pier Paolo Pasolini a scoprire – come si dice in questi casi – l'unicità della sua poesia e a permettere che ventiquattro dei suoi primi componimenti vengano pubblicati sulla rivista di letteratura Il Menabò, nel 1963. Parlo di unicità perché la poesia di Amelia è davvero impossibile da inquadrare all'interno dei movimenti poetici e letterari dell'epoca: anzi, personalmente trovo che classificazioni di questo tipo siano sempre difficili da fare. In questo caso è chiaro che non vale nemmeno la pena di fare un tentativo.

“La lingua in cui scrivo volta a volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica associativa è certamente quella di tutti i popoli, e riflettibile in tutte le lingue”, dichiara la stessa autrice.



La sua poesia è prima di tutto una ricerca di affinità sonore, più che di significati, e spesso trascura sintassi ed altre regole della lingua italiana. Di fatto, la lingua in sé diventa un'entità non più limitata, ma aperta. I confini tra idiomi svaniscono, le parole vengono smontate fino ad ottenerne solamente le componenti principali, vengono accostate per dar vita a singole immagini che si susseguono tra verso e verso, ed in certi casi vengono rimontate per ottenere un' armonia, un accordo. Lo scopo è quello di creare un linguaggio universale.

Così come vengono a mancare i confini tra lingue, cadono anche le divisioni tra pubblico e privato: dai suoi versi sprigionano riflessioni tanto intime quanto comuni, riguardanti la situazione storica contemporanea all'autrice. Una dimensione presentata per mezzo di versi che “sanno trasmetterci in modo lancinante la percezione della normalità dell'orrore, della quotidianità come dominio privilegiato del terribile”, come commenta Pier Vincenzo Mengaldo.

Pasolini definisce quella di Amelia una scrittura basata sul lapsus “inserito nella serie di borchie, di cui questa lingua – nata come fuori dal cervello, quasi proiezione fisica di un involucro spirituale razionalmente inesprimibile – ha bisogno di costellarsi, per presentarsi come prodotto culturale riconoscibile, leggibile. (…) certamente la Rosselli sa di fare esperimenti linguistici scoperti, in un laboratorio pubblico”.

Mi rendo conto di dilungarmi forse un po' troppo in citazioni altrui, che alle volte possono apparire noiose o di troppo, però confesso che al momento non saprei definire meglio l'unicità di Amelia Rosselli.

Sebbene apparentemente possa sembrare casuale, quindi, la scelta delle sue parole è in realtà calcolata fin nei minimi dettagli, in quanto esse formano parte di un più ampio sistema – il verso, la strofa, la lingua stessa – basato su esatte corrispondenze musicali, determinate quasi in maniera matematica. Questo lo si può evincere soprattutto con la lettura ad alta voce delle sue poesie, senza però dovere o volere a tutti i costi trovarci senso, significato, autenticità. “Cercatemi e fuoriuscite” esorta la Rosselli, che ancora afferma:


Io non sono quello che apparo – e nel bestiame

d'una bestiale giornata a

freddo chiamo

voi a recitare.



Attraverso una scrittura visionaria, frammentaria, ma per certi versi anche molto razionale la poetessa esprime una personalità complicata da uno stato psichico costantemente turbato, fragile e soggetto a depressioni, che la porterà infine al suicidio, nel 1996, nel suo appartamento romano.

Il video che vi propongo rappresenta a mio avviso una buona introduzione ad Amelia Rosselli, vale la pena di dedicarci 5 minuti di tempo.

Sara

Tuesday, 25 October 2011

Le parole "apolidi"




Ci sono molte parole che non esistono che mi piacciono tantissimo. Tibresco, malacché, bagiordo, non vogliono dire nulla, eppure fanno da paravento ad associazioni non prive di logica, sebbene l'inizio di questo percorso sia inspiegabile. Eppoi ci sono un monte di parole insospettabili, piccole, senza apparenti peculiarità che con il loro modesto bagaglio di fonemi nascondono la capacità di attraversare idiomi diversissimi, indifferenti alle distanze. Qualche mese fa per esempio, benché sul ponte della nave si parli in inglese, ho sussurrato tra me e me, ma neanche troppo sussurrato a dire il vero: Cosa? Detto tipo: Koosa? Ebbene, il marinaio filippino al mio fianco ha capito esattamente “compagno di cella”, mentre Sladjiana, ufficiale serbo, pensava volessi dire “capra”. Al ché, mi son dovuto spiegare: no ragazzi, né capra né galeotto, volevo soltanto dire: Whaat? E loro, per risposta: Aaah.

Un'altra volta, parlando con degli indiani di Mumbai, è saltato fuori che il nostro “mangia” di io mangio tu mangi egli... a loro suona esattamente come “il tratto di corda che lega l'aquilone al bandolo con cui lo si porta in giro”.

In questo genere di parole “itineranti” si potrebbero forse inserire i cognomi, che nascondono al viaggiatore insidie fino al giorno prima insospettabili e da cui non potrà più liberarsi completamente nemmeno fuggendo lontano. Anche al Polo Sud infatti, in un angolino della sua mente gli resterà per sempre il pensiero: Oh mio Dio! Io.. quella cosa là?! E sicuramente i toponimi: al largo della Scozia siamo passati accanto a due isolette che si chiamano Luce e Barra. Oltre ad altre due che di nome fanno Canna e Rhum.
Infine, un occhio di riguardo merita il ramo delle parole “apolidi”, quelle che non appartengono a nessuna lingua in particolare, ma che vengono comprese dappertutto. Ancora un esempio? Ciop-ciop.



                                                                                                                          NiccoloD.

Tuesday, 18 October 2011

Quartiere Karaköy, Istanbul.

È una gelida mattina d’autunno su tutto il Mar Nero e il vento sempre più forte comincia a montare le onde proprio mentre la nave discende verso il Bosforo, anche se una volta giunti nello stretto il mare si placa nuovamente e la costa ci accoglie con un abbraccio notturno dai mille occhi di lampade accese.

Alle sei è ancora scuro e lungo le sponde si leva il canto salmodiante della preghiera del mattino accompagnato dai suoni metallici dell'altoparlante e da uno strumento che non conosco. Se si esce sull’aletta non è raro accorgersi dell'arrivo in un nuovo porto dal cambiamento degli odori, ma la bassa temperatura oggi ostacola questo primo presentarsi della città, soffocando l'odore che la terra suda ed emana a miglia di distanza, pur potendo ancora riconoscervi una nota di amaro che ricorda l’ultimo sorso di una tazza di tè.

Si fa giorno e la nave è ormai all’ormeggio davanti alla cittadella di Galata, una collinetta affollata di gente e di palazzi, sormontata da una torre cilindrica col tetto a punta che costruirono i Genovesi secoli fa.

Dall’altra parte del canale, oltre due grandi moschee, si alza in volo un immenso stormo di anatre selvatiche che a strisce nere coprono il cielo di Istanbul per qualche minuto. Non avevo mai visto uno stormo così grande, centinaia e centinaia di anatre disposte in fila lunghissime e ordinate, separate dallo stesso settore di cielo. Ogni striscia è tracciata da tanti puntini concentrati verso la stessa direzione che scemano velocemente all'orizzonte tra i sottili minareti.

Queste anatre improvvise m'hanno messo allegria e forse ispirazione, così chiedo il permesso di uscire per andare a scattare qualche foto. In strada, dopo un attimo di agitazione dovuto al comportamento anomalo della mia macchina fotografica, comincio a fare fotografie a casaccio. Il piccolo schermo a cristalli liquidi non mostra alcuna differenza di luce cambiando l’ampiezza del diaframma, una cosa che mi turba, ben sapendo che qualche decennio fa era a questo modo -senza essere certi della luminosità sino all'ultima fase di sviluppo- che si facevano le fotografie. Dopo un'oretta, tra le calli e i mattoni di Karaköy, un tempo Galata, tutto ritorna come prima senza aver toccato alcun tasto in particolare. Misteri della tecnologia.


                                                                                                                  Niccolò Doberdob

Wednesday, 12 October 2011

Uno studio sul disegno

Leonardo da Vinci, progetto di una macchina volante, c.1488
Certe mattine ci si alza con una sensibilità amplificata. Questo penso che accada soprattutto dopo certe sere, quelle che si prolungano per sfumare in argento con la luce del mattino presto e il sonno che le segue non supera le tre ore. Sono momenti in cui si ritrova il mezzo giorno alle dieci e ci sente partecipi con tutto il corpo e tutta l’intelligenza - un fremito che si crede costante, impulso vegetale, da fotosintesi- di tutto ciò a cui assistiamo, di quello che diciamo e ascoltiamo.
Un simile stato dell’anima, permettetemi di usare questo termine, accordato sulla nota di fondo che suona il mondo in una sintonia cosmica che ci fa sentire di grandezza costante sia in rapporto ai sistemi solari e alle galassie, sia alle cellule e ai protoni, devono averlo saputo sostenere con perpetuità alcune persone. Tra queste un ragazzino di qualche secolo fa che non capendo l’algebra per astratto si mise a disegnarla al lume del moccolo e del sole, intestardendosi nella comprensione delle forme della natura che lo circondava e puntando sulla vista gli altri quattro sensi più la fibra stessa: le proporzioni cominciarono a sciogliere i loro numeri in linee ogni giorno più precise.
Gli andò bene, prese la strada giusta e non poteva essere altrimenti, ma andò oltre. Comprese che laddove, attorno a lui, la sostanza per distinguersi dall’aria si raggrumava in diverse densità -ed ecco gli alberi, il tavolo e le persone- sul suo foglio accadeva il contrario. Comprese che la sua penna non aggiungeva inchiostro su un supporto bianco, ma sul bianco agiva togliendogli dominio, scavando spazio.
I suoi disegni erano sculture al contrario, il foglio una finestra su una dimensione perfettamente simmetrica, speculare alla realtà tangibile in cui per contrasto egli si muoveva, svolgendo la sua vita.
La sua creatività da intuito si trasformò in leone, una fiera luminosa impegnata in una lotta esaltante, solitaria, contro l’aria che i suoi artigli fendevano senza provocare ferite e guadagnando una sempre maggiore leggerezza che, sulla carta, per esattezza, lo portò a volare.


                                                                                                                        ND.

Thursday, 6 October 2011

Parli come badi!

Riflessione sull'attuale questione della lingua.


Ricordo che qualche mese fa, era un giovedì sera, s'era riusciti come sempre a fatica a vedere 'Annozero' in streaming, cosa che all'estero appunto è possibile solo per vie non propriamente autorizzate. E come spesso accadeva il giovedì sera, dalle casse del computer uscivano le urla gracchianti del sottosegretario Daniela Santanchè, provocandoci tra l'altro un certo disagio (sia per la cattiva qualità del suono, sia un po' anche per la Santanchè in se stessa). La mia coinquilina tedesca che, grazie alle reminiscenze del latino studiato anni fa al Gymnasium, riesce ogni tanto ad individuare qualche parola di casuali conversazioni in italiano, quella sera si trovava con noi e assisteva apparentemente senza interesse alla trasmissione: mi colpì quindi quando ad un tratto mi chiese “Ma perché continua a ripetere la parola verità?” Lì per lì, devo essere sincera, non seppi cosa rispondere; mi resi conto che effettivamente la parola era già stata ripetuta più volte ed io non ne avevo quasi fatto caso. Perché, quindi?

Capita, a volte, di ripetere una parola talmente tanto che ad un certo punto essa si riduce solamente ad una sequenza di suoni e perde via via il suo significato. A me succedeva quando dovevo imparare le coniugazioni dei verbi (e studiando lingue, per questa fase ci sono già passata varie volte...): io bevevo, tu bevevi, egli beveva, noi bevevamo, voi beveva -va -va -ve -...eh?

Il trucco quindi stava funzionando anche quel giovedì sera, a forza di ripeterla la verità era diventata qualcosa di scontato, cui non ci si faceva più caso ma, soprattutto, non era più verità!

Qui si rischia addirittura di cadere nel filosofico, eppure c'è chi si riempie la bocca di queste parole e ce le fa sentire e risentire. Vorrei considerarne un'altra, cui forse qualcuno a questo punto avrà già inevitabilmente pensato: ebbene sì, libertà. In molti hanno provato a spiegare cosa sia, molti hanno lottato e lottano per ottenerla, molti sanno che non ce l'avranno mai, eppure rimane sempre un concetto difficile da definire in maniera univoca. E quindi quando sentiamo parlare di libertà, la domanda dovrebbe sorgere spontanea: ma quale libertà? La libertà del popolo? La libertà che avremo nel futuro? La libertà che sta a sinistra e che sostiene la causa dell'ecologia? Insomma, c'è libertà dappertutto, e abbiamo ancora il coraggio di lamentarci!

E ce ne sono molte altre di queste parole: amore, per esempio, e ovviamente il suo contrario, valori, emergenza, merito, e la lista potrebbe continuare ancora a lungo.

Ci sono poi parole più volgari che entrano a far parte dell'uso comune, proprio perché anche queste vengono riproposte con una tale frequenza che ci si dimentica del loro essere volgari e non ci si preoccupa nemmeno più di tappare le orecchie ai bambini quando queste vengono pronunciate. Di questi tempi poi tali parole escono allo scoperto con molta più assiduità, sarà la crisi che ci rende tutti più nervosi...

Buttandola sul ridere Niccolò proponeva, qualche post fa, il nome per il nuovo partito, facendo riferimento alle intercettazioni del mese scorso in cui il nostro Paese veniva definito di merda, e proprio da chi del Paese dovrebbe prendersi più cura e dare “il buon esempio”. Ebbene, oggi sempre lo stesso soggetto ha proposto un nome migliore.

Se quindi continuiamo a non badare, come invece suggeriva Totò, andrà a finire che questo trucchetto ci lascerà senza parole!

(Per concludere, vi rimando ad un post di qualche tempo fa, dal blog di Maurizio Viroli sul sito del Fatto Quotidiano: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/25/chi-parla-male-pensa-male/153335/)


Sara


(Nota: non me ne voglia la Santanchè, il post ha chiaramente un tono ironico! In ogni caso di fronte ad un'accusa posso sempre difendermi dicendo che “sono stata fraintesa”, pare che la scusa funzioni...)


Tuesday, 4 October 2011

Ernst L. Kirchner: correndo sul ponte

Ernst Ludwig Kirchner e die Brücke

Czardastaenzerinnen, 1908/1920
Il Ponte, ovvero die Brücke, fu il nome del gruppo di studenti di architettura che nel 1905 scelsero di percorrere assieme un tragitto ambizioso, benché la loro irrequietezza non glielo facesse apparire tale. Si trattava di rendersi media lungo le coordinate spazio-tempo della storia dell'arte unendo con pennellate dai colori sfrontati i maestri medievali della pittura germanica quali Dürer e Grünewald a ciò che essi ritenevano essere lo spirito del proprio tempo e, con grandi campate che sorvolassero la tradizione accademica, trovare una congiunzione tra l'espressione artistica europea e quella tribale dell'Africa e dell'Oceania.


Le stanze-studio di Fritz Bleyl, Karl Schmidt-Rottluff, Erich Heckel, e in particolare quella di Ernst Ludwig Kirchner -già una vecchia macelleria di Dresda- aprirono così le porte ad anni di frenetica ricerca sull'impatto emotivo delle forme che rappresentano la realtà materiale che ci circonda, attraverso accostamenti di colore in grado di catturare istanti particolari della loro percezione, tagliando l'elaborazione sensoriale in infiniti strati particolari.


In qualche anno, il crescente apprezzamento del pubblico e della critica portò il gruppo a trasferirsi nella capitale Berlino dove Kirchner poté approfondire la sua analisi della dimensione urbana, investigando sulle atmosfere di luci al neon cariche di movimento la cui elettricità non sembra mai essere in grado di lasciarsi alle spalle le solitudini, dai toni ben più sordi, della massa metropolitana. Volti di passanti che appaiono e si illuminano tra la folla come pesci in acque scure intercettati da un filo di luce, assieme a tram sferraglianti e bivi desolati, si accosteranno allo studio costante sulla figura umana ritratta prevalentemente in ambienti chiusi. Soffitte, locali notturni o tendoni da circo, sono infatti i luoghi dove i soggetti di Kirchner sembrano cadere, alternamente, in apparente stato di quiete -dato che non si ha mai la sensazione che tale calma sia della stessa natura di una contemplazione riappacificante nemmeno quando riprende motivi orientali - o in balia delle giravolte di un ballo sfrenato.


Potsdamer Platz, 1914
Nel 1913 il Ponte si scioglie, probabilmente Kirchner aveva peccato di egocentrismo nello scrivere Chronik der Brücke, la storia del gruppo, mandando su tutte le furie i suoi compagni che non si videro degnamente rappresentati. Ognuno di loro, e Kirchner più degli altri, tenterà in seguito di sminuirne l'esperienza con dichiarazioni irriverenti su quel che effettivamente doveva essere stato per la maturazione artistica dei suoi componenti. Personalmente però, non sono incline a dare troppo peso a tali postume dichiarazioni di disistima e d'altronde nemmeno volendo si potrebbe veramente cancellare il segno lasciato dal Brücke, la cui energia creativa contribuì parallelamente ai Fauves francesi alla nascita dell'Espressionismo.


Con lo scoppio della prima guerra mondiale, Kirchner si arruola come volontario, ma è un soldato emotivo che soffre la disciplina e in breve tempo sarà vittima di un pesante crollo nervoso che lo farà riformare dall'esercito. Esplicito a questo riguardo, il suo “Autoritratto come Soldato”, dove si rappresenta in uniforme e con una mano mutilata, senza in realtà aver mai subito tale incidente fisico.


Self-portrait as a Soldier, 1915
Per guarire si rifugerà in Svizzera, presso un sanatorio della località alpina di Davos, dove migliorerà le sue condizioni e lenirà la dipendenza da alcol e morfina sotto la supervisione dei dottori. Sarà questa l'occasione per entrare in contatto ravvicinato con l'ambiente naturale, probabilmente la tematica risolutiva dell'esperienza artistica di Kirchner, considerando l'arco della sua breve vita.


In una lettera da Davos del 1913 scrive: “ Il caro Van de Velde oggi mi scrive che dovrei fare ritorno alla vita moderna. Per me è fuori discussione. E neppure lo rimpiango... Le delizie che il mondo provvede sono le stesse dappertutto, differendo solo nella loro forma esteriore. Qui si impara come vedere oltre e ad andare più in profondità rispetto alla vita “moderna”, la quale generalmente è molto, molto più superficiale, malgrado la sua ricchezza di forme esteriori”.

Durante la convalescenza, il suo successo crebbe ulteriormente e nel 1921, cinquanta sue opere furono in mostra al Kronprinzenpalais di Berlino. Le esposizioni che avevano luogo in tutta la Germania lo costrinsero a riconsiderare la possibilità di un ritorno in patria, dove riprese a lavorare a ritmo incessante. All'inizio degli anni trenta la sua grande versatilità di pittore, incisore ligneo e scultore, gli apriva continuamente nuove frontiere e presto gli fu assegnato il prestigioso allestimento della hall del Folkwang Museum di Essen. Un lavoro che purtroppo non riuscì mai a completare a causa dell'avvento al potere del regime nazista che s'impadronì della struttura ed inserì Kirchner nella lista degli “artisti degenerati”.

Woman in a Green Blouse, 1913
Dal 1933 Kirchner fu continuamente osteggiato dalle contromisure culturali di Goebbels e presto gli fu interdetto di esporre in territorio tedesco. Oltre seicento fra le sue opere vennero confiscate ai musei per venire distrutte o vendute all'estero.


Reso ancora più fragile dalle circostanze politiche e dal bando totalitario sull'arte moderna, Kirchner si tolse la vita presso la sua abitazione di Davos, un anno prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.




Per un'introduzione all'opera di Ernst Ludwig Kirchner, in lingua inglese, consiglio di seguire i link a questi due tesi in formato pdf e di fare riferimento alle pagine omonime di Wikipedia, ancora una volta in inglese e in tedesco.


1. http://static.royalacademy.org.uk/files/kirchner-student-guide-13.pdf


2. http://www.newyorkartworld.com/reviews/kirchner.html


N. Doberdob