Il porto di Ashdod è uno scalo importante che si stende lungo il litorale come una costola di cemento attaccata dal mare alla Terra Santa e, per arrivare al varco d'uscita che avevo in mente, impiegai almeno mezz'ora.
Il cielo era nuvoloso, ma stava lentamente aprendosi e la giornata era mite. Dopo dieci minuti di marcia passai accanto a due pullman parcheggiati che avrebbero potuto essere i famosi Shuttle Bus per i passeggeri della nave, obbligatori per uscire dal porto, ma tutti i cartelli e le scritte erano solo in caratteri ebraici. Eppoi non c'era nessuno, nemmeno l'autista - pur essendo la portiera spalancata- a cui chiedere informazioni. Stando così le cose mi sentii autorizzato a non capire e a proseguire per la mia strada tenendo sott'occhio i movimenti di uno di quei giganteschi montacarichi a quattro zampe che servono per spostare i blocchi colorati, ma dalle tonalità slavate, dei container.
Quando arrivo al Gate il primo con cui incrocio lo sguardo è un ragazzo biondo leggermente in disparte rispetto al passaggio a livello che lascia passare le auto con brevi interruzioni. Sembrerebbe di origini slave e mi guarda con diffidenza, ma non dice niente. Ci sono però altri due, un ragazzo dalla carnagione olivastra e i capelli scuri, e una ragazza dai lineamenti tipicamente indiani. Sono loro che fermano le macchine e chiedono i documenti. Vestono la stessa uniforme grigia che da ora in poi indosseranno tutti quelli che mi fermano per i controlli.
Sventolo il mio pass e faccio per andare, dando per scontato che mi prendessero per un turista, ma il ragazzo dai capelli neri mi richiama indietro, quasi sorpreso. Gli mostro il documento e prima di visionarlo chiama a sé il suo collega biondo, come per mostrargli e insegnargli una cosa nuova. Ha l'atteggiamento di chi conosce il proprio mestiere, mentre il secondo ha un'espressione dura e si limita ad ascoltare. Non posso fare a meno di notare che entrambi sono molto giovani e probabilmente hanno meno dei miei venticinque anni.
Dopo aver letto le mie generalità mi dice “I love Italy, but you can not go this way. This is only for cars and I can not chek you properly.* Devi andare al Gate numero 3 che è laggiù in fondo.”
Rispondo sullo stesso tono, esprimendo la mia delusione per quella precauzione a mio avviso eccessiva, ma non faccio cenno all'equazione “mi piace il paese da cui provieni perciò mi piaci anche tu”, perché so bene che può essere una cosa ben più profonda della boutade da poliziotto che potrebbe sembrare e sinceramente non ho voglia di impelagarmi. Trascurando di prendere in considerazione che i tratti somatici di loro tre soli coprono buona parte dell'Eurasia. “Laggiù in fondo? Ma dove esattamente?”
“Vai dritto sino alla rotonda, poi chiedi.”
Vado allora verso il Gate numero tre ora che il sole si è levato e sull'asfalto strisciano nugoli di sabbia fine. Alla sinistra, sulle pareti di una di quelle lunghe costruzioni che fanno da magazzino e allo stesso tempo servono a caricare i camion, sono dipinti dei murales, ma i loro colori hanno poche sfumature e il gioco di prospettive ne risulta schiacciato. Anche i loro motivi non sono originali: una grande cerniera che si apre su uno sfondo di un'altra tonalità; il volto dell'uomo gigante che cerca di farsi breccia attraverso una specie di velo per irrompere in questa dimensione; un ragazzino vestito da corridore che, tra grossi cubi viola, sostiene a sua volta sulla schiena un grosso cubo viola nella stessa posizione in cui Atlante mantiene sollevata la volta celeste.
La sostituzione del Titano barbuto con la figura di un fanciullo, dalle evidenti aspirazioni atletiche, non mi convince affatto. Anzi, la sensazione di pesantezza che ne deriva sembra essere insuperabile, mentre ho sempre pensato che sotto lo sforzo del Titano, impegnato per punizione a tenere separati la terra dal cielo, fosse possibile una realtà di cose minute, generatrici di un certo grado di serenità.
Le immagini di questi graffiti invece, mentre mi dirigo allo spartitraffico per poi svoltare e avviarmi al Gate numero 3, danno luogo a un non precisato affanno senza punte di originalità. E la figura del ragazzino corridore, più di tutte, potrebbe fare da illustrazione a uno di quei racconti sulle adolescenze difficili che si leggono sulle antologie di terza media.
Fine della seconda parte.
Niccolò D.
*Mi piace l'Italia, ma non puoi passare di qui. Questo passaggio è solo per le auto e non ti posso controllare come si deve.