Tuesday, 29 November 2011

I Blocchi Viola

Seconda parte del post “Soltanto un porto, in Israele”.

Il porto di Ashdod è uno scalo importante che si stende lungo il litorale come una costola di cemento attaccata dal mare alla Terra Santa e, per arrivare al varco d'uscita che avevo in mente, impiegai almeno mezz'ora.
Il cielo era nuvoloso, ma stava lentamente aprendosi e la giornata era mite. Dopo dieci minuti di marcia passai accanto a due pullman parcheggiati che avrebbero potuto essere i famosi Shuttle Bus per i passeggeri della nave, obbligatori per uscire dal porto, ma tutti i cartelli e le scritte erano solo in caratteri ebraici. Eppoi non c'era nessuno, nemmeno l'autista - pur essendo la portiera spalancata- a cui chiedere informazioni. Stando così le cose mi sentii autorizzato a non capire e a proseguire per la mia strada tenendo sott'occhio i movimenti di uno di quei giganteschi montacarichi a quattro zampe che servono per spostare i blocchi colorati, ma dalle tonalità slavate, dei container.

Quando arrivo al Gate il primo con cui incrocio lo sguardo è un ragazzo biondo leggermente in disparte rispetto al passaggio a livello che lascia passare le auto con brevi interruzioni. Sembrerebbe di origini slave e mi guarda con diffidenza, ma non dice niente. Ci sono però altri due, un ragazzo dalla carnagione olivastra e i capelli scuri, e una ragazza dai lineamenti tipicamente indiani. Sono loro che fermano le macchine e chiedono i documenti. Vestono la stessa uniforme grigia che da ora in poi indosseranno tutti quelli che mi fermano per i controlli.

Sventolo il mio pass e faccio per andare, dando per scontato che mi prendessero per un turista, ma il ragazzo dai capelli neri mi richiama indietro, quasi sorpreso. Gli mostro il documento e prima di visionarlo chiama a sé il suo collega biondo, come per mostrargli e insegnargli una cosa nuova. Ha l'atteggiamento di chi conosce il proprio mestiere, mentre il secondo ha un'espressione dura e si limita ad ascoltare. Non posso fare a meno di notare che entrambi sono molto giovani e probabilmente hanno meno dei miei venticinque anni.

Dopo aver letto le mie generalità mi dice “I love Italy, but you can not go this way. This is only for cars and I can not chek you properly.* Devi andare al Gate numero 3 che è laggiù in fondo.
Rispondo sullo stesso tono, esprimendo la mia delusione per quella precauzione a mio avviso eccessiva, ma non faccio cenno all'equazione “mi piace il paese da cui provieni perciò mi piaci anche tu”, perché so bene che può essere una cosa ben più profonda della boutade da poliziotto che potrebbe sembrare e sinceramente non ho voglia di impelagarmi. Trascurando di prendere in considerazione che i tratti somatici di loro tre soli coprono buona parte dell'Eurasia. Laggiù in fondo? Ma dove esattamente?
Vai dritto sino alla rotonda, poi chiedi.

Vado allora verso il Gate numero tre ora che il sole si è levato e sull'asfalto strisciano nugoli di sabbia fine. Alla sinistra, sulle pareti di una di quelle lunghe costruzioni che fanno da magazzino e allo stesso tempo servono a caricare i camion, sono dipinti dei murales, ma i loro colori hanno poche sfumature e il gioco di prospettive ne risulta schiacciato. Anche i loro motivi non sono originali: una grande cerniera che si apre su uno sfondo di un'altra tonalità; il volto dell'uomo gigante che cerca di farsi breccia attraverso una specie di velo per irrompere in questa dimensione; un ragazzino vestito da corridore che, tra grossi cubi viola, sostiene a sua volta sulla schiena un grosso cubo viola nella stessa posizione in cui Atlante mantiene sollevata la volta celeste.

La sostituzione del Titano barbuto con la figura di un fanciullo, dalle evidenti aspirazioni atletiche, non mi convince affatto. Anzi, la sensazione di pesantezza che ne deriva sembra essere insuperabile, mentre ho sempre pensato che sotto lo sforzo del Titano, impegnato per punizione a tenere separati la terra dal cielo, fosse possibile una realtà di cose minute, generatrici di un certo grado di serenità.

Le immagini di questi graffiti invece, mentre mi dirigo allo spartitraffico per poi svoltare e avviarmi al Gate numero 3, danno luogo a un non precisato affanno senza punte di originalità. E la figura del ragazzino corridore, più di tutte, potrebbe fare da illustrazione a uno di quei racconti sulle adolescenze difficili che si leggono sulle antologie di terza media.


Fine della seconda parte.


Niccolò D.

*Mi piace l'Italia, ma non puoi passare di qui. Questo passaggio è solo per le auto e non ti posso controllare come si deve.

Thursday, 24 November 2011

La realtà entro quattro mura

Dallo scenario presentato nel post "Cose dell'altro mondo" vorrei fare un passo avanti nel tempo e risalire alle origini del teatro moderno.

Per ripercorrere le tracce del teatro medievale si era dapprima entrati nelle chiese, quindi usciti sulle strade, ed infine nelle piazze di tutta Italia.

Ora, se per il teatro medievale esistono poche e non sempre certe testimonianze, le origini della messa in scena moderna si possono invece collocare precisamente nel tempo e nello spazio. Tra il 1580 e il 1585 a Vicenza Andrea Palladio progettò ed iniziò a lavorare al celebre Teatro Olimpico, il primo teatro stabile a livello europeo. Il teatro moderno, come lo concepiamo ancora oggi, è quindi frutto di un Rinascimento ormai maturo.

Quella rinascimentale è una nuova concezione del mondo basata sull’importanza della dimensione terrena, focalizzata sull’ordine razionale che determina tutte le cose in natura e sul rapporto dell’uomo con essa. Mi piace considerare, come esempio di tale nuovo approccio alla realtà, l’affresco di Raffaello raffigurante La scuola di Atene (1510) nel quale i più grandi pensatori dell’antichità sono rappresentati all’interno di uno spazio architettonico di gusto classico, dominato da pilastri ed archi a tutto sesto e l’uso della prospettiva dona un senso di armonia e perfezione.

Per quanto riguarda il teatro, gli sviluppi più significativi di questo periodo sono determinati principalmente dal ritrovamento di alcuni testi antichi (la Poetica di Aristotele, ma anche il trattato De Architectura di Vitruvio, risalente al 25 a.C.) e, appunto, dalla scoperta della prospettiva, una delle maggiori conquiste rinascimentali.

Dalle piazze, i teatri si erano pian piano spostati nelle corti dei grandi signori, divenendo così molto più esclusivi. Il Teatro Olimpico rappresenta una svolta. Costruito su modello degli antichi teatri romani, esso può ospitare quasi 400 spettatori e, ai gradoni posti a semicerchio attorno al palco, offre altrettanti punti di vista: non si tratta infatti di un teatro di corte in cui l’unica prospettiva che conta è quella del re che siede di fronte alla scena, ma bensì di un teatro pubblico. La costruzione venne commissionata al Palladio dall'Accademia Olimpica di Vicenza, una compagnia (un club, se si vuole) di letterati, i cui membri si trovano tutti allo stesso livello sociale.

Come nei teatri antichi romani, dunque, il proscenio è suddiviso in tre parti, un’ampia apertura centrale e due minori laterali: questi passaggi si aprono sui fondali ed accompagnano l’occhio dello spettatore per le “sette vie di Tebe”, grazie ad uno straordinario effetto prospettico. In occasione della rappresentazione inaugurale, l’Edipo Re di Sofocle, venne rappresentata sullo sfondo la città di Tebe, ma di fatto ciò che si vede è una sorta di città ideale.
Negli anni successivi vennero costruiti altri teatri stabili e vennero introdotte numerose innovazioni di carattere tecnico ed architettonico che contribuirono a rendere la messa in scena sempre più spettacolare e verosimile, andando a definire sempre più la tipologia di teatro come lo si conosce oggi. Quinte rotanti e quinte scorrevoli, macchine e macchinari per far scendere gli attori dall'alto e creare nuovi effetti di movimento, innovative tecniche d'illuminazione per il palco e per la sala. Successivamente venne introdotto l'arco scenico, che ancora oggi costituisce un elemento necessario in ogni teatro stabile, e che rappresenta una vera e propria cornice che delimita la scena, dando una maggiore illusione teatrale. Tutti questi elementi dovevano contribuire alla creazione di uno spettacolo verosimile, una imitazione della realtà.

Una delle grandi novità di questa nuova concezione del teatro è che esso viene concepito come un luogo non più esclusivo. In questo modo sostituisce in un certo senso la funzione che svolgeva la piazza nel teatro medievale; inoltre, la costruzione di teatri chiusi rappresenta anche una misura di controllo delle manifestazioni pubbliche, molto frequenti nelle epoche precedenti.

Il genio rinascimentale ha quindi dato vita ad un nuovo teatro, capace di riprodurre la realtà in maniera sempre più fedele e, quasi in tutto, uguale a quello contemporaneo. Tuttavia, in questo processo di rinnovamento, si è andata sempre più perdendo la dimensione di un teatro spontaneo ed immediato, del quale anche il pubblico può diventare parte attiva; non è un caso infatti che il concetto di “quarta parete” risalga proprio alla concezione contemporanea del teatro.

Nonostante ciò, c'è qualcosa che la rappresentazione teatrale in sé non perderà mai, ovvero il suo carattere di unicità.

A Niccolò e a me è capitato, qualche mese fa, di trascorrere qualche ora di un viaggio da Göttingen a Udine con un attore tedesco, Dieter Rupp. “Il monologo dell'Amleto” - sosteneva - “è sempre lo stesso, non c'è dubbio, ma ogni volta che viene recitato lo spettatore assiste ad una reinterpretazione di Shakespeare irripetibile, che è allo stesso modo, un'esperienza unica per l'attore.”



Sara

Saturday, 19 November 2011

Soltanto un porto, in Israele.

Prima Parte.

In Israele non mi è riuscito di allontanarmi dal porto. O meglio, ce l'ho fatta solo per qualche minuto, ma in un punto in cui davanti a me vedevo ancora container e l'unica terra che ho potuto calpestare, a parte l'asfalto, è stata quella di alcune aiuole sporche di cartacce, lattine e brandelli di copertone.
Non so spiegare perché sia andata così, forse perché quando eravamo ancora sul ponte della nave, prima di arrivare, si era sparsa la notizia che era vietato aggirarsi a piedi per i dock ed era obbligatorio prendere lo Shuttle Bus o il taxi per andare almeno sino al vicino centro di Ashdod. Credo sia stato in questo modo che la mia curiosità, in maniera inconscia, si è ripiegata sulla circostante area demaniale, nell'arco della manciata di ore a disposizione.

I controlli però, erano iniziati sin dal giorno prima. A Cipro una delegazione israeliana, composta da quattro ragazze in abiti civili e un solo uomo oltre i cinquanta in tuta bianca e celeste, avevano controllato i passaporti e le facce di ogni membro dell'equipaggio intenzionato ad uscire. Qualche secondo occhi negli occhi e, se non vi fosse stato scorto il Maligno, veniva rilasciato un foglietto di carta con la foto e i dati personali, valido solo per la sosta della nave nello stato ebraico.

Tuttavia, oltre a questa ispezione evidente a tutti, per entrare in Israele sono stati necessari prima e durante l'approccio l'invio di una documentazione minuziosa con i dati di tutte le persone a bordo e l'acquisizione di un contatto costante via radio VHF direttamente con la Marina Militare Israeliana. Anche in questa occasione, le onde del canale 67 trasmettevano una voce di donna che una dopo l'altra dirigeva le navi alla rada, evitando di farle passare per una “no-go area”, non segnalata sulla carta.

A poche miglia dalla costa, sono frequenti gli avvicinamenti di navi da guerra e in cielo il volo di aerei militari. Nel nostro caso, quando si poteva già scorgere in lontananza l'entrata del porto, un'imbarcazione di pattuglia carica di soldati dalle facce grevi e i fucili spianati, ha percorso un giro in senso orario attorno alla nave. Saranno stati più di una ventina, uomini e donne, tutti in piedi e disposti prevalentemente in due cerchi serrati, uno a prua e l'altro a mezzo, dandosi le spalle tra loro in modo da essere rivolti tutti verso l'esterno. Si è trattato quasi di un'apparizione perché la loro lancia agile e svelta, pur non tralasciando di posare uno sguardo oltremodo attento, sparisce velocemente tra noi, nave passeggeri, e altre due mercantili che aspettavano l'arrivo del Pilota per essere condotte all'ormeggio.

Era mattino presto e l'unica luce era una striscia gialla dietro ai palazzi in lontananza, per il resto era tutto metallico, il cielo coperto e il mare mosso. Ashdod non doveva essere una bella città, a vedere il suo profilo da lontano sembrava un po' squallida, ma non m'importava. Succede molte volte di non trovarsi in città eccezionali, ma non per questo la voglia di vedere coi propri occhi come la gente ci vive svanisce. L'avrei visitata volentieri, desideroso di conoscere la sua quotidianità durante una mezza giornata di novembre.

Sbarcai finalmente dalla nave e sulla banchina un ragazzo e una ragazza vestiti di jeans stretti e felpa neri aspettavano i passeggeri discendere la scaletta seduti vicino a un metal detector, che così collocato sul molo, con le grandi distanze che si potevano vedere attraverso, sembrava strano come una porta collocata in uno spazio aperto. Lei doveva essere l'incaricata principale di quell'ispezione e spegnendo una sigaretta per accendersene immediatamente un'altra, con un'espressione dura mi chiese di posare tutto quello che avevo con me su un tavolino e di rigirare le tasche dei pantaloni. Chiavi, macchina fotografica, cintura: nessun problema.

Varcato questo primo controllo, non vedo attorno a me nessuno Shuttle bus o altra indicazione che ne faccia cenno, solo due taxi con un prezzario che non riesco a decifrare perché non mi sono chiesto sino ad ora quanto valga uno Shekel. Sulla sinistra però ci sono dei grossi hangar e un cartellone con su scritto Duty Free. Dentro vi si trovano una serie negozi scintillanti che attraverso interessandomi distrattamente a un Hard Disk portatile, per poi arrivare presso una porta di vetro che spingendo, senza nessuno sforzo si apre.

Eccomi libero di vagare per il porto senza che nessuno faccia caso alla mia presenza domandandomi perché mai potesse essere proibito e tra gru, lamiere e bomboloni di gas su carrelli a rotaia, dirigermi istintivamente verso l'uscita più vicina alla città.



Fine della prima parte.

                                                      Niccolò D.

Saturday, 12 November 2011

Ritorno alla giungla e riti d'iniziazione

La lettera di Bebette


Questa è la lettera di cui vi parlavo in Colline tonde e colline coniche, un breve scritto che delinea la storia di René Jean-Jérôme, la cui curiosità verso l' altrove lo portò ad esplorare in lungo e in largo il Vecchio Continente. Bernadette ebbe modo di conoscerlo durante una vacanza in Sud America.

Paul Klee. Paesaggio con uccelli gialli, 1923.
‹‹ È proprio una storia autentica quella di René Jean-Jérôme. Come vedi m'è tornato alla mente il suo nome. Nello specifico René è il nome e Jean-Jérôme il cognome. Che strana idea imporre nomi e cognomi d'esportazione ai colonizzati! Sono sicura che i loro nomi originari dovevano essere migliori, più vicini al loro contesto.

René era curiosissimo di tutto ciò che riguardava la natura, ci aveva detto di possedere molti Cd su ogni sorta di soggetto in merito e per approfittarne aspettava solo che installassero l'elettricità al suo villaggio. Così, quando tu mi hai ricordato la sua esistenza, mi sono immaginata che doveva per forza essere da qualche parte su internet dopo tutti questi anni. E l'ho trovato! È la sola guida nativa tra quelle impiegate alla GGC, la compagnia delle guide turistiche della Guiana.

Ed ebbi molta fortuna a incontrarlo perché all'inizio del soggiorno, il gruppo si divise in due. Una parte venne presa da un francese.. mentre io, ho avuto René.

René ha vissuto praticamente nudo nella giungla sino ai dodici anni. Un giorno però gli fu detto : “Tu sei francese e i francesi devono andare a scuola, che cosa vuoi imparare?”. Scelse allora di apprendere i mestieri del legno: falegname o mobiliere, non so più, sta di fatto che questo l'ha allontanato dal suo villaggio. Ma siccome era un ragazzino molto sveglio e curioso, fece in fretta ad imparare, oltre a comprendere che vivere nella giungla era come vivere ripiegati su se stessi. Il mondo era grande, vi erano molte cose interessanti e invenzioni incredibili da scoprire! Così quando un giorno gli venne nuovamente detto: “Tu sei francese e i francesi fanno il servizio militare. Tu dove lo vuoi fare, in Guiana o in Francia?”, non esitò un momento a partire per la Francia che, ad ogni congedo, visitò in lungo e in largo a piedi nudi (dato che non sopporta le scarpe, indossate allora solo per fare piacere ai militari....).

Ritornato in Guiana trovò lavoro al cantiere “Ariane” dove guidava delle macchine enormi che schiacciavano la giungla per impiantarvi del cemento!!! Ma ancora una volta gli venne fatta una proposta irresistibile: “Se vuoi , puoi farti una formazione per guidare delle macchine ancora più grosse, ma bisogna andare in Europa” .... .....Rieccolo quindi percorrere l'Europa a piedi nudi e in seguito, forte della formazione acquisita, rimettersi a guidare le grandi macchine che permettono ai grandi razzi di spiccare il volo (i razzi che vanno nello spazio, ndt).

Un altro giorno ancora, fu il suo capo ad interpellarlo personalmente “Dì, ho degli europei che vorrebbero vedere la giungla, tu la conosci, no? Li potresti portare?”... . Beh, certo che la conosceva! E sicuro che ce li poteva portare! E nella giungla lui li conduce ancora adesso... ed è stato in questo modo che anche lui ci ha fatto ritorno.

Ma il capitolo che ti interessa forse di più è quello che riguarda i riti d'iniziazione.

Si tratta di far smarrire i partecipanti nella giungla dopo avergli fatto prendere una droga affinché non sappiano più dove li si sta portando, dovendo poi essi ritrovare la via del villaggio solo dopo aver catturato una preda da condividere con il resto della tribù. René l'ha fatto all'età di dieci anni, se ricordo bene, ed era riuscito a cacciare un pecari, una specie di maiale selvatico. Gli servirono tre giorni per ritrovare il villaggio e altri due per cacciare. Yes! Ma t'immagini quel che succederebbe se lo si facesse da noi.. già quando il ragazzino ritorna un po' più tardi da scuola si scatena il panico!!! E lui 5 giorni!.. .. .... Anche se è vero che detta così fa un po' paura.

Nella loro cultura ogni bambino è tutelato da un adulto che gli insegna tutto ciò di cui ha bisogno per vivere nella giungla... come nutrirsi, cacciare, pescare, ripararsi, curarsi, fabbricare degli utensili... ... ... ciascuno con il suo professore esclusivo. Ed è questo suo tutore che decide quando il bambino dovrà affrontare l'iniziazione, se lo reputa maturo abbastanza per l'esperienza. Non è dunque una questione d'età, ma di maturità.

Fu per questa ragione che il suo fratellino affrontò il rito a soli a otto anni! E non è certo una cosa da tutti! Dopo più di due settimane d'assenza, non vedendolo tornare, la tribù decise di iniziare le ricerche l'indomani al levar del sole, proprio nel momento in cui il piccolo ricomparve.

Aveva con sé una preda piccina piccina da spartire e, anche se alla fine ce l'aveva fatta a ritrovare il villaggio, era in un brutto stato, fisico e psichico. Ma essendoci riuscito, ebbe diritto, come tutti coloro che portano a successo tale prova, ad avere un'abitazione tutta per sé.

Ed io che sono andata sino là per scoprire come e perché la gente vive nella giungla, con René sono stata proprio ben servita! ››

                                                                                                          Bernadette


Giunti alla fine della lettera, devo confessarvi che René Jean-Jérôme, non è il vero nome di René, ma solo uno di mia invenzione che lo potrebbe ricordare. Questo perché non vorrei urtare la sua sensibilità nel caso si scoprisse citato più volte in un articolo che tratta la sua vita in un'altra lingua, pubblicato da qualcuno che non l'ha mai incontrato di persona. Sapete, capita a tutti ogni tanto di cercare il proprio nome su Google.. Visto però che su internet René lo si trova già, cercherò di contattarlo, se non altro perché mi piacerebbe conoscerlo.

Inoltre, nella mia traduzione, ammetto di aver modificato leggermente il ritmo di certi passaggi, pur cercando di mantenere l'immediatezza propria dell'intero racconto. Questione di gusto personale, per una sua resa più efficiente nella nostra lingua.

Ad ogni modo di seguito trovate l'originale della lettera, in francese.


                                                                                                         Niccolò Doberdob

La lettre de Bebette.


C’est une bonne histoire vraie celle de René Jean-Jérôme. Comme tu vois, j’ai même retrouvé son nom. René est le prénom et Jean-Jérôme le nom. Quelle drôle d’idée d’imposer des noms et des prénoms d’exportation aux colonisés ! , je suis sûre que leurs vrais noms devaient être mieux, plus proches de leur milieu.

Tuesday, 8 November 2011

Non solo voce: Bobby McFerrin

Bobby McFerrin è un cantante jazz molto conosciuto ed apprezzato, diventato famoso anche per gli amanti di altri generi musicali nel 1988 con la celeberrima Don't Worry, Be Happy. Come succede spesso per innumerevoli canzoni altrettanto famose, di solito si ignora chi sia l'autore di testo e musica. Io, ad esempio, non lo sapevo fino a qualche giorno fa...

Definirlo semplicemente un cantante è però tremendamente riduttivo, come lo è la sola associazione con la famosa hit degli anni ottanta. Bobby fa della sua voce l'unico strumento di gran parte delle sue esibizioni; essa è quindi indispensabile, necessaria e allo stesso tempo sufficiente a tener accesa l'attenzione del pubblico durante un intero spettacolo.

Da poco ho appurato chi si celasse dietro a Don't Worry, Be Happy, e purtroppo non ho avuto ancora il tempo per scoprire un po' della sua musica. Anzi, da quando qualche sera fa ho sentito per caso un suo concerto alla radio, non ho quasi più riascoltato niente di suo.

Tuttavia... le vie della rete sono infinite e, come si può ben immaginare, su youtube si trovano moltissimi video di McFerrin (ed altri sono disponibili sul suo sito ufficiale). Oggi voglio proporvene uno che mi piace particolarmente; si tratta di un duetto improvvisato con la cantante portoghese Maria João. Anche in questo caso, definirla solamente “ jazz vocalist” è troppo poco, ma questo vi sarà chiaro guardando l'esibizione.

Quello che trovo straordinario di questo duetto è il modo in cui i due artisti sembrano capirsi alla perfezione, come, nel gioco dell'improvvisazione, ognuno dei due riesce ad intuire le mosse dell'altro e ad accompagnarle, per così dire. Certo, - come obbietteranno i lettori più esperti di musica – ma l'improvvisazione si basa su delle regole, sebbene agli orecchi meno attenti possa non sembrare; non è mica solo intuito!

Resta il fatto che, per una poco esperta come me, questo è un dialogo che sembra nasca esclusivamente dalla spontaneità dei due artisti. Il pubblico diventa spettatore di un botta e risposta in una lingua nuova, ma che riesce a comprendere senza fatica.


Buona visione!

Sara

Thursday, 3 November 2011

Colline tonde e colline coniche

Quattro passi sul “ terril ”


Per una ragione o per l'altra, mi trovavo in Belgio a raccogliere informazioni sui paesi tropicali. Volevo fare una tesi sulla giungla e già questo poteva sembrar strano, dato che si trattava del lavoro conclusivo per un corso di studi in letteratura francese. Quando poi feci sapere in giro che a scriverla sarei andato in Vallonia, in molti fecero fatica a trovarci un nesso, ma titubanti o divertiti, mi lasciarono andare senza troppe domande.

Scelsi di andare a Liegi, quattro giorni prima della partenza stabilita da tempo per il 16 giugno e, grazie anche al temperamento della città, là trovai tutto quello che mi serviva. Spensieratezza, una biblioteca universitaria, una libreria alle pendici del quartiere Pierreuse e una cantina piena di scatoloni di cartone, stracolmi di libri. Ma a stimolare la mia ispirazione furono anche le lunghe conversazioni con Bernadette, la signora che mi affittava una stanza, la cui passione per la natura ha qualcosa di formidabile. Per dare un'idea, lei è in grado di stare una settimana da sola in montagna tra i boschi, cibandosi delle piante e delle radici commestibili trovate cammin facendo. Certo, si tratta di un tipo di gita un po' estremo e se ne rende conto anche lei, sebbene una volta, sottovalutando forse la resistenza necessaria, decise di portarsi dietro una tra le sue sei-sette sorelle -non ricordo più bene il numero- a cui ben presto mancarono le forze. La lasciò allora presso un rifugio alpino a rifocillarsi, mentre lei continuò la sua marcia ancora per qualche giorno.

Una sera, dopo cena, grazie alle lunghe giornate di fine giugno- in Belgio d'estate resta chiaro sino alle undici- andammo a fare una passeggiata seguendo un sentiero che tra i boschi portava sino al “terril”. Non conoscevo ancora questa parola, ma immaginandomi un grande ammasso di terra compresi presto di averci indovinato. I terrils sono le montagnole, a volte vere e proprie colline alte più d'un centinaio di metri, formate dai vecchi detriti delle miniere di carbone che con i decenni sono ritornate a essere terra fertile per radici e prati incolti, su cui alberelli ancora esili crescono caoticamente. Ogni tanto il passo vi sprofonda ed è questa la ragione per cui su ampi tratti sarebbe impedito l'accesso, ma con una certa accortezza seguendo il volo di un calabrone e il profumo di una flora diversa da quella dei boschi intorno, nessuno sarebbe venuto a dirci di tornare indietro.

Molti fiori dal lungo stelo attiravano infatti insetti in cerca di nettare e il loro brusio aumentava la percezione del tepore estivo. Sarà stata solo una sensazione, ma Bernadette mi spiegò che il suolo nero del terril assorbe più calore delle zone circostanti e ciò dà luogo a microclimi che possono variare da un versante all'altro della collina, spesso adatti a specie di piante e animali non tipici dell'area. Sono inoltre frequenti fenomeni di combustione interna, dovuti alla presenza di materiale ancora combustibile e a una grande quantità di ossigeno in profondità, che possono trasformare il terril in un forno capace di raggiungere i 1300 gradi al suo interno e tra i 25 e i 60 gradi a pochi centimetri dalla superficie. In queste condizioni un clima caldo e umido viene garantito anche nei gelidi mesi invernali assieme ad una diversità ecologica non indifferente. É per per questo che a inoltrarsi su un terril si possono incontrare, tra papaveri gialli e digitali, vari tipi di rospi e lucertole, annusare piantine di finocchio, fermarsi ad ascoltare il lavorio dei picchi o ritrovarsi davanti ad alberi da frutto come meli e peri, di cui si dice siano cresciuti dai torsoli che i minatori gettavano nei cunicoli.

E tra tutti questi esserini che ci spiavano, ronzavano o fotosintetizzavano attorno a noi, procedeva la nostra scalata a questa grande sorta di soffice panettone erbaceo, dalla forma artificialmente tondeggiante -ma ce ne sono anche a punta e alcuni decisamente troppo, troppo, conici- che insieme a tanti altri attorno alla città di Liegi, testimonia l'impatto, volumi e volumi di roccia dissepolta, del suo “glorioso” passato di industria pesante.

Con questo non voglio dire che l'estrazione mineraria e la metallurgia siano ormai un capitolo chiuso nel bacino Haine-Sambre-Mosa, solo che da tempo queste attività non sono più in grado di trapiantare interi paesi di minatori da tutte le Zolfatare d'Europa alla periferia di centri come Liegi o Charleroi: ogni notte la lingua di fuoco costante della “belle flamme” emana un'aureola arancione dal lungo tubo dell'acciaieria di Ougrée dove segna il vento e il suo alone si propaga sino alle acque navigabili della Mosa che portano in centro.

Ma sul nostro terril era ancora chiaro e come al solito Bernadette era piena di storie e aneddoti incredibili. In particolare quella sera mi raccontò la vita di René Jean-Jérôme, una guida turistica nativa della Guyana Francese che lei aveva conosciuto durante un viaggio in Sud America, sul ciglio ombroso della giungla.

Si trattava della storia di un ragazzino che dopo aver superato un difficile rito d'iniziazione, lascia il villaggio della sua tribù per andare a esplorare il mondo. Una storia che io vorrei raccontare a voi da molto tempo, ma siccome mi dispiacerebbe tralasciare qualche particolare importante, ho chiesto a Bernadette di scrivermi una lettera per rinfrescarmi la memoria. Una lettera che ho già ricevuto e che mi sto limitando a tradurre cercando di non appesantire troppo la sua immediatezza.

La troverete su circoloMarlow tra qualche giorno.



Niccolò


1.  Foto di terrils.

2.  Approfondimento sui terrils presenti nella regione di Liegi, in lingua francese.