Abbrustolendosi, le bacche rosse, tra le foglie allungate degli arbusti di “Qahwah”, devono aver sprigionato nell'aria l'odore di una casuale torrefazione che probabilmente un vento caldo dell'ovest avrà avuto la forza di spingere fin sull'altra sponda del Mar Rosso. Attorno alle mura della città di Mokha, i Sufi per primi nei loro monasteri ricavarono dai chicchi tostati una bevanda simile a quella che conosciamo noi oggi e i mercanti yemeniti fiutarono l'affare che li arricchirà per secoli.
Dalle quattro alle otto del mattino, sul ponte buio della nave, di caffè vien voglia di farsene più di qualcuno, ma anche in questo caso un buon caffè può diventare una specie di miraggio. Va a finire che ci si abitua a quello solubile, non senza aver tentato mille combinazioni: amaro, col latte, con molto zucchero, senza niente. Io adesso lo preferisco amaro, dopo aver provato per qualche giorno una strana ricetta di caffè e zucchero inumiditi e pestati assieme, prima di essere sciolti in acqua bollente. Ne veniva fuori un impiastro colloso dall'odore di bruciato, tanto più chiaro quanto i granelli erano resi fini mescolandolo dentro la tazza e da cui poi si creava una schiumetta che ricordava vagamente quella di un espresso.
Una preparazione troppo lunga e noiosa per una leggera alterazione in meglio del gusto. Presto si ritorna a vedere quell'impiastro con sguardo vacuo e a domandarsi: “ma che cosa sto facendo? ”
Durante il periodo che ho trascorso in Inghilterra, Carole, la mia housemate franco-brasiliana, col tono tra l'ironico e il supponente di chi allo stesso tempo vanta infinite piantagioni e centinaia di formaggi, mi chiese perché in Italia fosse così forte, anche affettivamente, la tradizione del caffè. Non mi ricordo cosa le risposi, inventai qualcosa sul momento che cominciava tipo “Come come mai? É perché..”
NiccoD.