Omaggio nel bicentenario della nascita
Ricco, avido e senza cuore: è così che Charles Dickens dipinge Ebenezer Scrooge, protagonista del suo “Canto di Natale” (A Christmas Carol – 1843). Un classico che, in quanto tale, rimane sempre attuale e che si può quindi rileggere in ogni tempo senza correre il rischio di perdere il senso del suo messaggio. Se si pensa poi che l'occupazione di Scrooge è proprio quella del finanziere, ossessionato dal guadagno e dal profitto, che odia il Natale perché lo considera solo una perdita di tempo, viene in mente ancora più facilmente il Natale appena passato o comunque quelli a noi più vicini nel tempo.
Le minacce di tracolli finanziari e bancarotte alternano sempre più ai canti le note dolenti della crisi, una crisi che non è, ovviamente, solo economica. La corsa affannosa che caratterizza le nostre abitudini quotidiane ci fa perdere di vista tanti aspetti considerati ormai forse marginali, ma che sono in realtà componenti essenziali delle nostre esistenze e che contribuiscono ad arricchirle di calore e colore: l'unico calore per Scrooge era stato quello delle sue vestaglie di lana, in quanto ai colori, pensando alla Londra dell' 800, viene in mente facilmente il nero dei camini delle fabbriche, il grigio della neve sporcata dall'inquinamento, il marrone scuro del fango ammucchiato ai bordi delle strade.
Se da un lato, quindi, la rivoluzione industriale aveva portato progresso, ricchezza e comodità, dall'altro stava contribuendo all'imbruttimento delle campagne, in seguito allo sviluppo incontenibile di grossi centri urbani, e ad un cambiamento radicale dei ritmi di produzione e degli stili di vita. Cambiamenti di cui oggi possiamo vedere le conseguenze, che per certi aspetti, quali ad esempio quello ambientale, si manifestano ormai nelle maniere peggiori.
Ma, abbandonando
Christmas Carol, dato che ormai il Natale è passato, viene in mente un altro celebre classico dickensiano, il cui titolo da solo basta per evocare la situazione presente:
Hard Times, “Tempi difficili” (1854). Anche in questo caso, poco importa che la vicenda si svolga nell'immaginaria Coketown, nella Londra vittoriana o in una qualsiasi altra città, agli inizi del 2012; la galleria di personaggi, che la penna di Dickens ritrae in maniera abilissima, costituisce uno spaccato dei più diversi tipi umani, nei quali anche molti lettori contemporanei potrebbero facilmente riconoscersi. Oltre al progresso economico, la rivoluzione portò anche alla nascita di nuove classi sociali: “nuovi” ricchi e “nuovi” poveri, ma soprattutto molti
self-made men, uomini “che si sono fatti da soli”, riuscendo a riscattare le loro umili origini grazie esclusivamente ai loro sforzi. Di uomini così, sicuramente ognuno ne conosce qualcuno, o ne ha sentito parlare; il lettore che dovesse imbattersi in Mr Bounderby, il
self-made man dickensiano che appare per la prima volta nel
quarto capitolo del romanzo, non potrà mancare di riconoscerne i tratti caratteristici.
Era ricco: banchiere, commerciante, industriale e chissà che altro ancora. Un uomo chiassoso, grande e grosso, con lo sguardo fisso e una risata metallica. Un uomo fatto di una stoffa ruvida e grezza che pareva essere stato stiracchiato per coprire un tale corpaccione. Un uomo con una testa grande e una fronte sporgente, solcata alle tempie da grosse vene turgide, e sul viso una pelle così tesa che sembrava tenergli aperti gli occhi e sollevate le sopracciglia. Un uomo che dava l'impressione di essere gonfiato come un pallone e pronto ad alzarsi in volo. Un uomo che non si stancava mai di tuonare che lui si era fatto da solo; un uomo che si vantava sempre, con il suo vocione strombazzante, che lui, un tempo, era stato povero e ignorante. Un uomo che era uno schiacciasassi dell'umiltà. (…) Aveva pochi capelli. Si poteva pensare che li avesse perduti per il troppo parlare e che quelli rimasti fossero sempre ritti e in disordine perché continuamente squassati dal vento delle sue smargiassate.
É questa la prima immagine che abbiamo di Mr Bounderby, nel giorno del suo compleanno, mentre ricorda il suo sfortunato passato, conversando con Mrs Gradgrind, moglie del suo amico Mr Gradgrind, un altro dei personaggi principali del romanzo.
“Non avevo scarpe ai piedi. Quanto alle calze, non le conoscevo neppure per nome. La giornata in un fosso, la notte in un porcile: ecco dove ho festeggiato il mio decimo compleanno. Non che il fosso rappresentasse una novità, perché sono nato in un fosso. (…) Mia madre mi lasciò a mia nonna (...) e mia nonna, da quel che ricordo, è stata la donna più malvagia e perfida che sia mai esistita. (...) Aveva una drogheria (...) e mi teneva nella cesta per uova. È stata la culla che ho avuto nell'infanzia: una vecchia cesta per le uova."
Per arrivare, poche battute dopo, all'apice dell'elogio di se stesso (si noti, rigorosamente in terza persona):
“Era destino che me la cavassi (…). Me la sono cavata, anche se nessuno mi ha mai dato una mano. Vagabondo, fattorino, vagabondo manovale, facchino, commesso, capufficio, socio, ecco Josiah Bounderby di Coketown. Ecco i miei precedenti e la mia vittoria. Josiah Bounderby ha imparato a leggere dalle insegne dei negozi, signora Gradgrind, ed è arrivato a distinguere le ore osservando l'orologio del campanile di St. Giles a Londra, sotto la guida di un ubriacone storpio, ladro recidivo e vagabondo cronico. Provate a parlare a Josiah Bounderby di Coketown di scuole comunali, di scuole modello, di scuole professionali e di tutta la sfilza di scuole esistenti, e Josiah Bounderby di Coketown vi dirà, chiaro e tondo, che è tutto bello e tutto buono - questi lussi lui non li ha mai avuti - ma ben venga la gente decisa, coi pugni solidi - l'educazione che ha formato lui non fa per tutti e questo lui lo sa - ma tale è stata, potrete costringerlo a bere olio bollente, ma non riuscirete mai a fargli negare i fatti della sua vita”.
La versione di Bounderby verrà poi contraddetta verso la fine del romanzo dalla sua stessa madre, che rivelerà, smascherandolo, che l'infanzia del figlio era stata felice e per nulla difficile e che lei mai aveva pensato di abbandonarlo.
Si tratta senza dubbio di una delle testimonianze migliori della maestria di Dickens, capace in pochi tratti e con poche, ben scelte, parole, di dar vita a personaggi immortali, amati da generazioni di lettori.
Dall'Inghilterra vittoriana, però, vorrei fare un salto nel tempo, fino agli anni '60 del secolo scorso, per incontrare un' altrettanto eccellente versione del self-made man dickensiano.
Quello che vi propongo è lo sketch degli
Four Yorkshiremen, che la prima volta andò in onda nel 1967 per lo show satirico “
At Last the 1948 Show”. Cambia il medium, la tv questa volta, e i personaggi sono quattro uomini benestanti, originari dello Yorkshire, appunto, che ricordano gli ormai lontani
tempi difficili, facendo a gara a chi può “vantare” l'infanzia peggiore per finire, dopo aver aggiunto assurdità ad assurdità, con il solito “Eh, ma i giovani d'oggi...”.
I quattro “Bounderbies” sono John Cleese, Graham Chapman (entrambi futuri membri del gruppo comico dei “Monty Python”), Tim Brooke-Taylor e Marty Feldman, conosciuto da tutti come l'Igor di Frankenstein Junior.
Buona visione!
(Per vedere il video con i sottotitoli in italiano, cliccate qui)
Sara