Friday, 27 January 2012

L'effetto durava per più di mezz'ora

Non ci facemmo sorprendere dall'alba millefoglie di nuvole scure e piume di pavone, e lasciammo in silenzio che quello sfregolìo atmosferico producesse le sue scariche di bottiglia nel cielo, ultima pellicola di uno sguardo stupito, distrattosi per un attimo dalle nostre teste.

Nello spingerci verso un sapore diverso -avevamo, chissà perché, in mente l'idea di uno speciale gusto di mosto piccante- ci mettevamo in bocca un essere minuscolo e nero dalla forma di stella o più semplicemente della famiglia del granchio, che trovavamo la sera lungo le pendici del canale e conservavamo in un sacchetto senza troppe cure.

Libero finalmente di scorrazzare sulla lingua, coi suoi passetti laterali, s'arrabbiava come un matto quando si scopriva chiuso, imprigionato dalla chiostra dei denti e dalla stretta del palato. Non sapevamo infatti se a ingerirlo fosse velenoso. Allora sentivamo rimbombare nei canali oro-laringei, mugolii inscenanti perdite strazianti, dolori non finiti, battaglie ferme all'istante successivo a quello in cui il colpo mortale è stato sferrato.

E l'esserino prendeva a pizzicare sì, eccome! All'impazzata, e la nostra lingua si intorpidiva e si gonfiava producendo un gusto metallo-amaro e il granchietto alla fine moriva per soffocamento o schiacciato contro il palato.

Sulle nostre lingue che a fatica spingevamo fuori, una patina verde, come se vi fosse stato passato un fascio di ortiche.

L'esserino cadeva per terra e nessuno se ne accorgeva, avrebbe potuto benissimo essere il residuo di una caramella succhiata, di uno sputo.

L'effetto durava per più di mezz'ora.


                                                     Nicco.

Saturday, 21 January 2012

Sullo stesso istante

Il mondo non si è fermato mai un momento, dice la canzone. E siccome io non sono buono a ricordarmi mai le parole oltre al ritornello, continuo giusto per il piacere di cantare, coinvolgendo nel motivetto l’estinzione dei dinosauri e il disegno di questo bel sentiero di laguna che ora sto percorrendo.

Senza prendere fiato -anche se per scherzo- si rivela allora il moto incessante che schiaccia le esperienze ad un singolo accadimento, allo stesso modo in cui è indistinguibile lo scoccare della freccia dal momento in cui la mela viene trafitta.

Mi viene alla mente un’intervista in cui Italo Calvino si era soffermato a spiegare che una volta letto un libro, è come se lo avessimo sempre conosciuto. Che i lineamenti di un pensiero o di un volto siano in grado di trovar la forza, di foggiarsi, anche a ritroso? Le rocce che diedero forma ai Buddha afghani di Bamiyan, le statue e i ciottoli che ne sono rimasti, penso possano trovano lo stesso denominatore nella breve formula: è successo.

Credo sia ancora facoltà umana quella di coglierne la decadenza. 


N.D.

Wednesday, 18 January 2012

Il gel al cactus




Il gel al cactus è molto buono perché se applicato correttamente fa diventare i capelli duri come spini. 

Lo adopera con una certa frequenza il mio compagno di cabina e ogni tanto, a osservarlo con attenzione, mi sono accorto come il suo volto sia ormai pervaso da riflessi verdastri. 

Quando ciò succede cado facilmente nello sbigottimento e, se lui si gira verso di me, mi desto come di scatto, cercando di fare finta di niente. 


N.D

Monday, 9 January 2012

Nuda e Senza Seno

Penso che ogni canzone, anche la più stupida, racconti sempre almeno due storie: una di chi la scrive, una di chi l'ascolta (nel caso autore ed interprete siano la stessa persona, altrimenti il gioco si complica ancora).
Ecco due storie:
1:
http://www.youtube.com/watch?v=odtX5PQbLOM

2:
M'hai svegliato, o forse mi sono svegliato, quando ho aperto gli occhi ci stavamo già guardando, in realtà non so nemmeno se davvero ho dormito. Non sono nel mio letto e nemmeno nella mia città. Un raggio di sole dal cortile, dalle finestre lasciate aperte, l'odore dell'aria di primavera, sempre lo stesso, sempre sconosciuto. Rumori che non puoi sentire: della tua strada, che non ho mai visto di giorno, del risveglio di un vicino di casa che non conosco, dell'orologio della cucina, ci sarà la cucina dietro a quella porta? È strano, il colore dei tuoi capelli m'era sembrato diverso, più chiaro. Nel naso l'odore di quel troppo che abbiamo bevuto, di sicuro lo senti anche tu; nel corpo la chiara sensazione di quello che abbiamo fatto, chissà cosa senti. Sembra così ovvio, eppure ogni volta mi lascio sorprendere. Non so mai se dargli importanza o meno. C'è troppa luce per dimenticare, ed è stato bello. Si potrebbe rifare, anche se è un risveglio duro, lui è duro, ma non ha senso, tu sei diversa, io lo sono di sicuro. Sbadiglio anche se non ce n'era davvero bisogno e ti auguro buongiorno. I tuoi vestiti sono sul pavimento, guardandoli ora, vedo che ci hai messo un sacco a sceglierli, l'avresti fatto comunque, anche se non ero io, non lusinga, ma assolve. Le scarpe sono proprio ridicole, all'inizio m'avevano colpito, poi, quando le avevi in mano, mi sei sembrata tenera; alla luce del giorno sono solo stupide, forse però, se non le avessi portate, non sarei venuto da te, lo stupido sono io. Seduta sul letto, in pigiama (quando hai messo il pigiama?), mentre raccogli i capelli, ti vedo più bella, le tette sono più vere e più invitanti, per stringerle bastano le mani. Reciti ancora, sono sicuro che quando sei sola non ti alzi così, però la parte ti viene meglio. Ti sorrido perché non so che altro fare, ma mi piace farlo. Non so se ho fame o nausea, non importa, tanto non c'è niente da mangiare, c'è il the che al mattino mi fa vomitare. Questa notte abbiamo parlato da grandi intellettuali, ti ho fregata. Avevo voglia di smontare quest'aria da filosofetta, ti ho citato un poeta di cui, dici, hai sentito parlare, era il nome del gestore del bar, scritto sullo scontrino, ma non te lo racconterò. Non ho niente da vincere e non voglio farti male. È normale che con quel nome da figlia di signora amante delle telenovela, tu voglia darti un tono.
Credo che parlare di massimi sistemi ora sia la cosa più grottesca che si possa fare. Ti dico che mangerei un'insalata con le tue tette, rido immaginando una donna nuda senza seno, mi rispondi con una battuta che non fa ridere, ma che mi piace ripensare. Mi fermo per un po' a guardare il cucchiaino, ma ormai non c'è un motivo per restare, ho ancora qualche ora da perdere, non qui. Ti saluto, quasi sicuramente non ci vedremo più, i numeri ce li siamo scambiati, giusto per non sentirci persone poco serie. Mangerò, mi stuferò, fumerò una sigaretta che mi farà schifo, mi stuferò ancora e partirò. Non saprai mai quello che penso, e forse non lo sa nessuno, e di certo quel che pensi tu non lo saprò mai, e non mi importa, non ci conosceremo. “Arrivederci”, è una bugia, ma anche un bel ricordo.

Friday, 6 January 2012

Charles Dickens e il ritratto dei nostri tempi.

Omaggio nel bicentenario della nascita

Ricco, avido e senza cuore: è così che Charles Dickens dipinge Ebenezer Scrooge, protagonista del suo “Canto di Natale” (A Christmas Carol – 1843). Un classico che, in quanto tale, rimane sempre attuale e che si può quindi rileggere in ogni tempo senza correre il rischio di perdere il senso del suo messaggio. Se si pensa poi che l'occupazione di Scrooge è proprio quella del finanziere, ossessionato dal guadagno e dal profitto, che odia il Natale perché lo considera solo una perdita di tempo, viene in mente ancora più facilmente il Natale appena passato o comunque quelli a noi più vicini nel tempo.

Le minacce di tracolli finanziari e bancarotte alternano sempre più ai canti le note dolenti della crisi, una crisi che non è, ovviamente, solo economica. La corsa affannosa che caratterizza le nostre abitudini quotidiane ci fa perdere di vista tanti aspetti considerati ormai forse marginali, ma che sono in realtà componenti essenziali delle nostre esistenze e che contribuiscono ad arricchirle di calore e colore: l'unico calore per Scrooge era stato quello delle sue vestaglie di lana, in quanto ai colori, pensando alla Londra dell' 800, viene in mente facilmente il nero dei camini delle fabbriche, il grigio della neve sporcata dall'inquinamento, il marrone scuro del fango ammucchiato ai bordi delle strade.

Se da un lato, quindi, la rivoluzione industriale aveva portato progresso, ricchezza e comodità, dall'altro stava contribuendo all'imbruttimento delle campagne, in seguito allo sviluppo incontenibile di grossi centri urbani, e ad un cambiamento radicale dei ritmi di produzione e degli stili di vita. Cambiamenti di cui oggi possiamo vedere le conseguenze, che per certi aspetti, quali ad esempio quello ambientale, si manifestano ormai nelle maniere peggiori.

Ma, abbandonando Christmas Carol, dato che ormai il Natale è passato, viene in mente un altro celebre classico dickensiano, il cui titolo da solo basta per evocare la situazione presente: Hard Times, “Tempi difficili” (1854). Anche in questo caso, poco importa che la vicenda si svolga nell'immaginaria Coketown, nella Londra vittoriana o in una qualsiasi altra città, agli inizi del 2012; la galleria di personaggi, che la penna di Dickens ritrae in maniera abilissima, costituisce uno spaccato dei più diversi tipi umani, nei quali anche molti lettori contemporanei potrebbero facilmente riconoscersi. Oltre al progresso economico, la rivoluzione portò anche alla nascita di nuove classi sociali: “nuovi” ricchi e “nuovi” poveri, ma soprattutto molti self-made men, uomini “che si sono fatti da soli”, riuscendo a riscattare le loro umili origini grazie esclusivamente ai loro sforzi. Di uomini così, sicuramente ognuno ne conosce qualcuno, o ne ha sentito parlare; il lettore che dovesse imbattersi in Mr Bounderby, il self-made man dickensiano che appare per la prima volta nel quarto capitolo del romanzo, non potrà mancare di riconoscerne i tratti caratteristici.

Era ricco: banchiere, commerciante, industriale e chissà che altro ancora. Un uomo chiassoso, grande e grosso, con lo sguardo fisso e una risata metallica. Un uomo fatto di una stoffa ruvida e grezza che pareva essere stato stiracchiato per coprire un tale corpaccione. Un uomo con una testa grande e una fronte sporgente, solcata alle tempie da grosse vene turgide, e sul viso una pelle così tesa che sembrava tenergli aperti gli occhi e sollevate le sopracciglia. Un uomo che dava l'impressione di essere gonfiato come un pallone e pronto ad alzarsi in volo. Un uomo che non si stancava mai di tuonare che lui si era fatto da solo; un uomo che si vantava sempre, con il suo vocione strombazzante, che lui, un tempo, era stato povero e ignorante. Un uomo che era uno schiacciasassi dell'umiltà. (…) Aveva pochi capelli. Si poteva pensare che li avesse perduti per il troppo parlare e che quelli rimasti fossero sempre ritti e in disordine perché continuamente squassati dal vento delle sue smargiassate.

É questa la prima immagine che abbiamo di Mr Bounderby, nel giorno del suo compleanno, mentre ricorda il suo sfortunato passato, conversando con Mrs Gradgrind, moglie del suo amico Mr Gradgrind, un altro dei personaggi principali del romanzo.

Non avevo scarpe ai piedi. Quanto alle calze, non le conoscevo neppure per nome. La giornata in un fosso, la notte in un porcile: ecco dove ho festeggiato il mio decimo compleanno. Non che il fosso rappresentasse una novità, perché sono nato in un fosso. (…) Mia madre mi lasciò a mia nonna (...) e mia nonna, da quel che ricordo, è stata la donna più malvagia e perfida che sia mai esistita. (...) Aveva una drogheria (...) e mi teneva nella cesta per uova. È stata la culla che ho avuto nell'infanzia: una vecchia cesta per le uova."

Per arrivare, poche battute dopo, all'apice dell'elogio di se stesso (si noti, rigorosamente in terza persona):

Era destino che me la cavassi (…). Me la sono cavata, anche se nessuno mi ha mai dato una mano. Vagabondo, fattorino, vagabondo manovale, facchino, commesso, capufficio, socio, ecco Josiah Bounderby di Coketown. Ecco i miei precedenti e la mia vittoria. Josiah Bounderby ha imparato a leggere dalle insegne dei negozi, signora Gradgrind, ed è arrivato a distinguere le ore osservando l'orologio del campanile di St. Giles a Londra, sotto la guida di un ubriacone storpio, ladro recidivo e vagabondo cronico. Provate a parlare a Josiah Bounderby di Coketown di scuole comunali, di scuole modello, di scuole professionali e di tutta la sfilza di scuole esistenti, e Josiah Bounderby di Coketown vi dirà, chiaro e tondo, che è tutto bello e tutto buono - questi lussi lui non li ha mai avuti - ma ben venga la gente decisa, coi pugni solidi - l'educazione che ha formato lui non fa per tutti e questo lui lo sa - ma tale è stata, potrete costringerlo a bere olio bollente, ma non riuscirete mai a fargli negare i fatti della sua vita”.

La versione di Bounderby verrà poi contraddetta verso la fine del romanzo dalla sua stessa madre, che rivelerà, smascherandolo, che l'infanzia del figlio era stata felice e per nulla difficile e che lei mai aveva pensato di abbandonarlo.

Si tratta senza dubbio di una delle testimonianze migliori della maestria di Dickens, capace in pochi tratti e con poche, ben scelte, parole, di dar vita a personaggi immortali, amati da generazioni di lettori.
Dall'Inghilterra vittoriana, però, vorrei fare un salto nel tempo, fino agli anni '60 del secolo scorso, per incontrare un' altrettanto eccellente versione del self-made man dickensiano.
Quello che vi propongo è lo sketch degli Four Yorkshiremen, che la prima volta andò in onda nel 1967 per lo show satirico “At Last the 1948 Show”. Cambia il medium, la tv questa volta, e i personaggi sono quattro uomini benestanti, originari dello Yorkshire, appunto, che ricordano gli ormai lontani tempi difficili, facendo a gara a chi può “vantare” l'infanzia peggiore per finire, dopo aver aggiunto assurdità ad assurdità, con il solito “Eh, ma i giovani d'oggi...”.
I quattro “Bounderbies” sono John Cleese, Graham Chapman (entrambi futuri membri del gruppo comico dei “Monty Python”), Tim Brooke-Taylor e Marty Feldman, conosciuto da tutti come l'Igor di Frankenstein Junior.

Buona visione!




(Per vedere il video con i sottotitoli in italiano, cliccate qui)

                                                                                                                              Sara